OUTDOOR (ELEFANT) STAGE: COLA JET SET, THE SCHOOL, NICK GARRIE, LUCKY SOUL, BMX BANDITS, STEREO TOTAL, COOPER, TEENAGE FANCLUB
INDOOR STAGE: BONNE IDEE, ZIPPER, EUX AUTRES, NORTHERN PORTRAIT, THE SMITTENS, POCKETBOOKS, DISASTERADIO, HELP STAMP OUT LONELINESS, ART BRUT
CHURCH STAGE: THE UNDERSTANDING, HELENE, THE MARSHMALLOW, LE MAN AVEC LE LUNETTES, COUNTRYSIDE, HONK KONG IN THE 60s, STE MCCABE, THE PETE GREEN CORPORATE JUGGERNAUTE, GORDON MCINTYRE
TRAINS: THE MANHATTAN LOVE SUICIDES, MJ HIBBETT, KING OF CATS, MOUSTACHE OF INSANITY

Pioverà . E’ una certezza fin dal primo sguardo, appena svegli, fuori dalla finestra del motel. Del resto era ampiamente prevedibile, e viene quasi da pensare che stare tre giorni nel Derbyshire senza nemmeno una goccia di pioggia sia come andare a Bologna e non passare nemmeno una serata al Covo. Ma con ogni probabilità  sono solo scuse per provare a farsi piacere il maltempo inglese. Per l’apertura di questa domenica 26 luglio, ultima giornata dell’Indietracks 2009, si è scelta un’esperienza cui non si poteva rinunciare: il concerto sul treno. Perchè oltre ai tre palchi il festival regala anche un piccolo programma parallelo di concerti acustici in carrozza, mentre la locomotiva a vapore trascina i vecchi vagoni lungo la restaurata Midland Railway. Il set prescelto è quello dei Manhattan Love Suicides. Dopo essere riusciti ad individuare il treno giusto, compaiono anche i musicisti armati di chitarre acustiche. La line-up però non sembra quella corretta. La notizia infatti, data dagli stessi componenti della band, è che i Manhattan Love Suicides si sono appena sciolti; dalle loro ceneri è già  nata una nuova band, chiamata Medusa Snare. Il concerto ad ogni modo c’è, ed anche se non è semplicissimo apprezzare le canzoni in versione acustica, senza la voce femminile e stando in piedi nella carrozza stipata di gente, l’esperienza è del tutto singolare e a suo modo emozionante. Potrebbe essere, viene da dire, il simbolo perfetto di questo festival davvero unico.

Tornati sulla terra ferma, con una fitta serie di nuvole grigie che continua ad ammassarsi sulla testa, tocca ai The School salire sul palco all’aperto. Il loro indie-pop diretto, che ricorda tanto i Belle And Sebastian che i girl group degli anni ’60, è vivace e divertente. Hanno al loro arco una serie di ottime canzoni e li si attende con ansia al debutto sulla lunga distanza. Cominciano a cadere le prime gocce ed è tempo di riparare al coperto. Suonano i danesi Nothern Portrait, autori di un paio di ottimi EP per l’infallibile Matinèe Recordings. Non dubito che i pezzi ci siano, ma ci sono anche evidenti problemi con i volumi, soprattutto delle chitarre, che rendono il live difficilmente comprensibile. Dopo poco sono di nuovo fuori per raggiungere la chiesa: i Le Man Avec Les Lunettes, seconda band italica ad esibirsi al festival, stanno finendo il loro breve soundcheck. Il set si srotola sicuro lungo una scaletta che pesca in egual misura dall’album d’esordio e dal nuovo “Plaskaplaskabombelibom”. Le loro limpide melodie beatlesiane impiegano molto poco a conquistare gli applausi e l’approvazione del pubblico inglese, che accorre, finito il concerto, per complimentarsi e fare incetta di dischi.

La pioggia continua a cadere, ma senza la convinzione sufficiente per impedirmi di prendere posto sotto l’Elephant Stage per quello che sarà  un altro set da ricordare. Lucky Soul. E’ un ritorno sulle scene dopo parecchi mesi di silenzio, impegnati nel pensare e registrare il seguito dell’ottimo esordio “The Great Unwanted”. Ma davvero non si direbbe, chè il tiro, l’impatto, la decisione sono quelli che ricordavo, se non addirittura meglio. Vestiti come di consueto di tutto punto con completi in stile Mad Men, buttano fuori il loro Motown sound con un’energia e una sicurezza che rapisce in un istante. I ragazzi non sbagliano nulla e tengono il palco come fosse casa loro, ma a catalizzare l’attenzione sono più di tutti Ali Howard e la sua voce, calda e perfetta. Un nuovo taglio di capelli e un vestitino azzurro brillante le donano un look diverso, meno inglese e più americano. La musica resta quel compendio formidabile di Phil Spector e nothern soul, Ronettes e Gloria Jones, che pur essendo filologico non riesce a suonare datato. E’ il talento dei Lucky Soul: una profonda conoscenza della materia e una grande sicurezza nel maneggiarla, permettono alla band di Greenwich di essere perfettamente credibili e proporre live come questo, magnetici e travolgenti.

Appurato che continuare a fissare il cielo con aria ora seccata, ora speranzosa non contribuisce più di tanto a fermare la pioggia, è tempo di mettersi al riparo nel capannone che ospita il palco coperto. E’ il turno dei Pocketbooks, band di casa da queste parti, headliner nella prima edizione dell’Indietracks, due anni fa. Il loro è un indiepop di classica fattura inglese che oltre a richiamare, ancora una volta, la scuola della Sarah Records, così come i suoni d’impronta C86, fa venire in mente anche il nome degli Housemartins. Piacevoli da ascoltare, soprattutto quando allontanarsi da un tetto non sembra una buona idea, ma un poco di personalità  in più non guasterebbe. Decido in ogni caso di prendere un altro po’ d’acqua e raggiungere la chiesa perchè, stando al programma, dovrebbe iniziare tra poco il concerto di una band che aspetto con curiosità . Si chiamano Hong Kong In The 60s, sono un trio, hanno base a Londra, e quel poco che sono riuscito ad ascoltare sulla loro pagina MySpace mi ha piacevolmente colpito. Suonano canzoni dolci e malinconiche, avvolte da un tocco orientale di cui è responsabile la cantante e tastierista Mei Yau Kan. Tra Devics, Beach House e Blonde Redhead, hanno la notevole capacità  di riuscire a suonare senza tempo e, ascoltandoli bene, a mettere in dubbio anche lo spazio. Con già  un EP all’attivo (“Willow Pattern Songs”), le premesse per un futuro interessante ci sono tutte. Uscito dalla chiesa, sento arrivare dall’Elephant Stage note familiari e non ci metto molto per riconoscere le canzoni dei BMX Bandits. Approfitto di una parziale tregua della pioggia per andare ad ascoltare il finale del set della storica band scozzese. Duglas Stewart è ancora in gran forma, eccentrico come sempre, trasforma il concerto in una sorta di chiaccherata con il pubblico, interrotta di tanto in tanto da qualche fulminante brano a presa immediata. Dopo i saluti e il ripetuto invito a non perdersi, questa sera, gli amici Teenage Fanclub (non c’è pericolo!), è bene tornare di nuovo al riparo: la pioggia sta cadendo sempre più fitta.

Parte della colpa l’ha anche Disasteradio, che con la sua elettronica fastidiosa non aiuta a rendere vivibile la zona del palco coperto, dove quasi tutti ormai si sono rifugiati. Ma più che altro, devo ammettere, è colpa della mia idea: raggiungere i binari, saltare sul primo treno e restare per un po’ comodamente seduti sui sedili imbottiti. E’ l’ideale per riposarsi, guardare il paesaggio verde e bagnato fuori dal finestrino e aspettare, magari, che spiova. Sulla carta non era una cattiva idea. Peccato che nel tempo impiegato per percorrere i cento metri che dividono il capannone del palco coperto dai binari si scatena il diluvio. Sono ore che piove, e continuerà  senza sosta fino al mattino successivo; ma il momento peggiore, quello in cui la pioggia e il vento uniranno le forze per rendere del tutto inutile qualsiasi ombrello, gocce e folate d’acqua che arrivano da ogni parte, saranno esattamente quei tre, forse quattro minuti: quelli passati allo scoperto, con l’idea di raggiungere la stazione.

Sono completamente fradicio, la maglia impregnata d’acqua e i pantaloni appiccicati alle gambe. Restare sul treno non ha più molto senso: fa freddo. La carrozza passa la stazione di Butterlay, poi torna indietro, di nuovo a Swanwick. Altra idea, questa volta migliore: rifugiarsi in chiesa, ambiente piccolo, sempre pieno di gente e quindi piuttosto caldo. Qui, oltre ad asciugare un poco i vestiti, capita di assistere al live dei Pete Green Corporate Juggernaut. Pete Green, alla voce e chitarra acustica, con due compari al basso e alla batteria, conquista il numeroso pubblico in pochi secondi, distribuendo alla folla una manciata di fischietti colorati che simulano il verso acuto del treno. Il giovanotto inglese spiega come nelle sue canzoni ci siano molti riferimenti ai treni: ogni volta che il mondo ferroviario viene evocato, tutti quelli che sono venuti in possesso di un fischietto sono incaricati di soffiarci dentro e simulare così il suono classico della locomotiva. I riferimenti in effetti sono tanti e i fischi si susseguono in mezzo al folk-pop saltellante e allegro messo in piedi dal simpatico trio. E’ un set divertente e rilassante, pieno di risate e di canzoni semplici ma vive. Racconti di peripezie quotidiane accompagnati da una robusta vena ironica, incaricata di infondere ogni volta la dovuta dose di scanzonata leggerezza.

E’ sera, ormai buio, continua a piovere: l’Indietracks 2009 si avvia verso la conclusione. Non prima però di essere travolto dal ciclone portato fin qui da Eddie Argos e dai suoi amici. Art Brut in forma smagliante. La band è una macchina da rock n’ roll lanciata senza freni: una bassista solidissima, dark e in disparte, un batterista indiavolato che lancia urla e pesta sulle pelli senza risparmiare una goccia di sudore e due chitarristi che percuotono le corde senza grazia e si esibiscono in ogni possibile esempio di ‘posa rock’. Piede sulla cassa spia, strumenti puntati al cielo, corsetta attraverso il palco, salto dalla pedana della batteria e così via, snocciolando un clichè dietro l’altro, con buona dose di autoironia. Poi c’è lui, l’impacciato signore che tiene in mano il microfono e sfodera il suo accento cockney. Eddie Argos è un profeta. Dietro i suoi modi da anti-rockstar c’è una mente lucidissima, che emerge tanto nella brillantezza dei suoi testi, che nei momenti di improvvisazione e dialogo col pubblico. Ci tiene a precisare, come prima cosa, che gli Art Brut non sono una band twee. E la serie serratissima di brani che vengono messi in fila subito dopo ne è una dimostrazione lampante, sempre che ce ne fosse davvero bisogno. Scambia l’ammonimento che chiude “My Little Brother”, Stay off the crack, con un più a tema Stay off the tracks. Si lamenta, poco dopo, del fatto che i suoi Art Brut stanno in effetti suonando un po’ troppo twee. Durante “DC Comics And Chocolate Milkshake” raggiunge l’apice dello show: scende in mezzo al pubblico e si abbandona a una lunghissima digressione in cui racconta, esaltatissimo, di una surreale visita alla sede newyorkese della sua casa editrice di fumetti preferita. Il resto della band, sul palco, continua indiavolata a pestare sugli strumenti. Eccezionali.

Per il gran finale sono tutti radunati davanti all’Elephant Stage, la collinetta invasa di persone. Tanti ombrelli aperti, tanti impermeabili e cappucci per ripararsi dalla pioggia che continua, fastidiosa, a cadere. I Teenage Fanclub salgono sul palco accompagnati da un boato di applausi, come si conviene a una band ormai storica, autrice di una serie di album eccezionali e detentrice di una lunga lista di canzoni a dir poco perfette. Riesce difficile immaginare un nome più appropriato per chiudere nel modo migliore questo Indietracks 2009. Ci sono canzoni nuove, quattro o cinque, che finiranno nell’album di prossima uscita e confermano un talento musicale e melodico che sembra non accennare a spegnersi. C’è, ovviamente, una serie dei loro brani migliori, che scatenano senza eccezioni entusiasmi e sing-along. Da “Star Sign” a “Don’t Look Back” fino alla più recente “It’s All In My Mind”. Suonano senza sbavature, sicuri e sereni, le parti di chitarra di Norman Blake e Raymond McGinley che avvolgono calde le melodie vocali. E’ un abbraccio sincero e sentito, al festival e a tutte le cinquecento persone che si sono radunate in questo strano posto di vecchi binari e locomotive. Sono state giornate che resteranno bene impresse nella memoria: una fitta serie di canzoni semplici, immediate e sincere, magiche a loro modo, legate assieme in una trama impalpabile ma ben presente. Una trama evocata dal luogo, così particolare, isolato, senza tempo, e dalle persone, attente, serene, appassionate. Una trama che raccoglie ogni filo e lo intreccia in un’unica, colorata immagine. Norman Blake è ormai senza voce, ma “Neil Jung” i Teenage Fanclub la vogliono suonare comunque. Importa poco se restano indietro le note più alte, il cuore che ci mettono vale più di ogni impeccabile esecuzione.

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