Ma tu stai qua per le luci o pè quell’altra?
Quell’altra è Shannon Wright.
Il tizio alle mie spalle definisce il suo ultimo cd, nato dalla collaborazione con Yann Tiersen, una galattica presa a male cosmica. Beh, dal vivo Shannon Wright non è una presa a male, non lo è affatto. E’ un po’ anni Novanta, questo si, o almeno è l’effetto che fa a una della mia generazione, quando si faceva sbornia di Riot Grrrls, cantautrici elettrificate e intimiste pronte a svelare le proprie turbe mentali in pubblico. Il live di Shannon Wright, anche per chi non conosce la scaletta, è innegabilmente trascinante. Quando suona il piano, quando la voce prende quegli acuti, quando aggredisce la Fender e si aliena dietro le distorsioni che produce. Così post-rock, così di classe, così creativa. Femmina. Ho visto diverse ragazzine del pubblico schernirla, non capirla. Chi lo sa. In un altro mondo sarebbe stato Le Luci della Centrale Elettrica ad aprire a Shannon Wright, e non viceversa.
Poi arriva Lui. Già , Lui. Che ha l’onere di sopravvivere alla colpa di essere famoso, l’onere di essere giovane senza essere giovanilista. Cosa che gli riesce ancora, per fortuna. Vasco Brondi non soccombe, fa il suo ingresso senza il padre putativo Giorgio Canali e cerca di dimostrare che sa reggere il palco anche da solo (anche se D’Erasmo degli Afterhours al violino gli dà una discreta mano). Apre con la versione work in progress e dilatata di “Lacrimogeni” a cui ci aveva abituato nei precedenti live. Nonostante l’ossessione per l’edilizia urbana e alcune metafore consumate, questo ragazzo si conferma per quello che è: un autore.
Lo è nelle canzoni dove i treni regionali per Bologna diventano Transiberiane, o in quelle dove trova lo spunto per citare il il “Diario Minimo Di Un Altro Tempo” di un ex terrorista (una poesia di Susanna Ronconi scritta in un carcere di massima sicurezza sul finire di “Fare I Camerieri” diventa uno dei momenti più dolorosi e viscerali del concerto: E quando, rivestite delle divise naziste, e calze color militare che scendevano al polpaccio ad ogni passo e scarpe di cartone, incalzate dal fiato sul collo dello sbirro che dava il ritmo dell’apertura dell’infinita teoria dei cancelli blindati ripetendo “muoviti puttana”. Sì, anche allora eravamo belle, bastardi, Dio se eravamo belle).
Poi tocca all’anatema personale di Vasco Brondi, la “Nuotando Nell’Aria” degli Anni Zero: “Per Combattere L’Acne”, con tanto di mani sollevate in alto e insopportabile karaoke. Si ostina a fare “Sere Feriali” invece di suonare “I Garage A Milano Nord”; per il resto il concerto è un reading, ci sono molti innesti dal blog. Spesso si perde la forma canzone e il violino rende le cose struggenti più del dovuto.
Le Luci della Centrale Elettrica ormai sono un fenomeno mid-cult. Forse era più figo non esserci a sto concerto, come nei film di Nanni Moretti. Chissà se a Vasco Brondi tremano i polsi all’idea del secondo album. Fossi in lui chiuderei la carriera qui e scapperei in Brasile ad aprirmi un bar. Perchè non gli riuscirà più di dire qualcosa di così bello e urgente come adesso. Varrà la pena tentare, lo farà , ma l’unica cosa di cui hai voglia mentre sei in mezzo al pubblico è tentare di proteggerlo, di conservare intatta la grazia dell’esordio.
Ma Le Luci delle Centrale Elettrica se ne fregheranno, per cui me ne frego anche io, e chiudo la recensione rubando una frase dal live, dato che in questo live le parole sono contate, e pesate, così tanto: perchè l’ispirazione è una forma superiore di critica, che chiameremo felicità .
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