Peter Silberman e il suo progetto solista. Ecco The Antlers, ‘gruppo’ nato nel 2007 con un album di inebriante pop misto ad indie e post-rock, che arriva nel 2009 con la consapevolezza di poter premere l’acceleratore più in profondità , per raggiungere in maniera più veloce (e relativamente sicura) distanze più lontane. I nuovi orizzonti raggiunti sono quelli che alcuni critici hanno definito ‘post-pop’, in realtà un insieme perfetto di pop e folk, con alcuni tocchi di cantautorale che accomunerebbero, per i meno attenti, questo disco a taluni ascolti del panorama solista inglese. Ed invece per capirlo meglio bisogna ascoltarsi i primi album dei Sigur Ròs.
Le atmosfere, nella storia raccontata da Peter, cioè quella di un uomo che vede morire l’amata di cancro sul letto dell’ospedale, ricordano proprio quelle del celebre complesso islandese (i rumori quasi da ‘documentario sulla natura’ di “Wake”, la semplicità della velatura dei suoni sovrastati dalla voce in “Atrophy”), anche se in alcuni frangenti le chitarre da musica d’autore ci riportano a pensare di ascoltare un disco relativamente commerciale. Sono canzoni come “Two” e “Shiva”, limpide ballate di una tristezza che si conficca nella carne come una spina, complici anche le linee di piano gonfie di delay, che un po’ ricordano gli episodi più lenti e rilassati degli ultimi lavori dei Mogwai. Alcuni toni ricordano pure i Portishead, come la bella “Kettering”, sofferta ballad dal sapore solo lontanamente radiofonico (facilmente immaginabile a volume altissimo in cuffie nel pieno della notte) che esplode in un finale che fonde alla perfezione post-rock e trip-hop (ascoltate la linea di batteria e i synth che qui in Italia potremo ricondurre solo e soltanto ai Giardini di Mirò).
La velocità sempre molto ridotta di tutto il disco ha un breve stacco alla terza traccia, “Sylvia”, la più incalzante, in cui diversi strati di suoni sintetizzati si rincorrono per i primi 3 minuti prima di scoppiare all’improvviso in un quasi-silenzio condito solo dalla voce e da una base minimale, che esplode poi nel finale.
La prima opinione che verrebbe a tutti ascoltando questo disco è che si tratti di uno dei pochissimi esempi di musica veramente orecchiabile che abbia una struttura compositiva in realtà di notevole complessità . Se le linee vocali sono essenziali, i diversi patterns che si riversano sulle altrettanto essenziali linee di drum machine riescono a colpire anche per il modo in cui sono studiati; riescono in questa maniera a raggiungere l’ascoltatore e ad investirlo di sensazioni tra le più diverse. E trovare un disco soggettivamente interiorizzabile in maniera completa e personale, diciamocelo, è difficile. Peter Silberman ha composto un gioiellino destinato a lasciare il segno, dal primo all’ultimo secondo; musica per tutti, con una vena malinconica che trasmetterà più di qualche scossone a chiunque provi a darci un ascolto. Cosa si può volere più di così?
Credit Foto Shervin Lainez