“La Doppia Ora”, film d’esordio di Giuseppe Capotondi, è un puzzle dai contorni noir i cui pezzi, alla fine, coincidono tutti. O quasi. Rimane un tassello. Ma è quel tassello, il non detto, il sospeso, a dare al film credibilità e armonia. Sceneggiatura originale, regia coinvolgente, attori-protagonisti superlativi. La storia è molto avvincente, intima inizialmente e carica di suspense in seguito: Sonia e Guido si conoscono in un locale fumoso, durante uno speed day, incontro lampo tra uomini e donne, organizzato da una “Crudelia De Mon” (per la magrezza e la capigliatura!) bionda e sentimentale. Guido (Filippo Timi), un ex-poliziotto tenebroso e rude, è un assiduo frequentatore di queste ‘serate a tema’, che per lui si concludono sempre in camera da letto, senza coinvolgimento emotivo. Per Sonia (Ksenya Rappoport), invece, è la prima volta. Le sue giornate trascorrono lente nelle camere dell’albergo dove lavora come cameriera, insieme a Margherita. Tanto Sonia è triste e reticente, tanto Margherita è allegra e invadente. Quest’ultima cerca di coinvolgerla, ma Sonia non sorride mai, fin quando non incontra Guido.
Tra i due si crea immediatamente un’ intesa, un legame: due numeri uguali nella stessa ora… Guido riscopre la tenerezza per una donna, la magia di una semplice passeggiata in un bosco nell’attesa di un primo contatto, un primo bacio. Scena, questa, resa onirica da un ritmo rallentato, dai colori accesi e sgranati, e dai primissimi piani che s’intrecciano, mentre si cercano. E’ una meravigliosa scena d’amore, interrotta bruscamente da qualcosa d’inaspettato: una rapina, uno sparo, un omicidio. L’atmosfera noir sostituisce quella intimista della prima parte del film, avvolgendo i personaggi, soprattutto quelli maschili. Il commissario di polizia, Dante, che indaga sulla rapina ricorda i tanti poliziotti che hanno popolato i film degli anni quaranta: barba incolta, mandibola in continuo movimento masticatorio, occhi porcini e capelli impomatati. I personaggi si muovono tra le strade di Torino, città industriale, grigia, perfetta per un noir. Il flusso umano che attraversa a volte il film ricorda quello operaio: una massa indefinita e senza colore di esseri alienati, solo di passaggio in città (come i clienti dell’albergo). Fuori, invece, il bosco, gli alberi, la terra non come luogo bucolico e sereno ma come contesto per atti criminali. In alcune atmosfere ovattate il film ricorda “La Ragazza Del Lago” di Andrea Molaioli, anch’essa opera prima prodotta dallo stesso produttore, Indigo Film.
La macchina da presa scorre sui corpi e sui visi (soprattutto su quello di Ksenya Rappoport) come una mano che sfiora, accarezza per poi afferrare e scoprire quello che si nasconde al di là della maschera. Il regista accompagna lo spettatore, lo incita a guardare, osservare, partecipare, senza mai sottoporlo a ritmi troppo sincopati. Attraverso l’uso della soggettiva in alcune scene di grande pathos lo spettatore si sente dentro la storia, inghiottito, e come i personaggi prova paura, ansia, angoscia fino all’incapacità fisiologica di respirare.
Il film è stato presentato al festival di Venezia dove Ksenya Rappoport ha ricevuto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile e Filippo Timi il premio Pasinetti del sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani come miglior protagonista maschile della mostra. Un film premiato, dunque, dalla critica ma anche dal pubblico che esce dalla sala esclamando: ‘però, lo rivedrei!’