Dopo “Valzer Con Bashir” – che l’anno scorso arrivò a sfiorare l’Oscar – il fantasma del Libano continua ad aleggiare sul cinema israeliano.
E’ sicuramente significativo vedere come una cinematografia fino a questo momento nascosta abbia il coraggio di rivalutare il proprio ruolo, di prendere coscienza e di farsi testimone di uno dei momenti più travagliati del proprio paese, una tragedia nazionale che non è sbagliato definire come il Vietnam dello stato ebraico.
Anche in questo caso, la potenza dell’indignazione non esce fuori da quanto è mostrato, quanto piuttosto da nuove forme del racconto che si sforzano di aderire quanto più possibile allo stato d’animo dei reduci: nel caso di Lebanon, quello che sarebbe più significativo in un film di genere resta volutamente fuori campo, e nemmeno la successione degli eventi è completamente lineare.
Anzi, la desolazione e la solitudine del manipolo di soldati sempre più sporchi, sempre più inumani, sempre più simili a topi in trappola che lo popolano sono caratterizzati proprio dalla loro inazione, dalla loro impossibilità di tenere un ordine razionale, una missione, un compito preciso al quale affidarsi per resistere nella guerra (lo sforzo di Assi di radere il suo volto ormai imbrattato dal sudore e dall’olio che perde dentro l’abitacolo del tank – è dovere di un ufficiale farlo – senza avere nemmeno uno specchio).
Il film di Maoz – come altri registi israeliani, ha una formazione principalmente documentaria – si concentra sul claustrofobico interno di un carro armato di Tsahal, e costringe lo spettatore alla stessa visione limitata dei suoi passeggeri, nel primo giorno di invasione del Libano, nel 1982.
Come detto, quello che è più importante nelle azioni di guerra resta al di fuori dello stretto campo visivo del visore/mirino del veicolo che cerca di farsi largo sui ruderi di una Beirut in cui l’aviazione ha già prodotto rovine e vittime civili.
Eppure, è l’unico sguardo possibile e l’unico capace di mostrare affetto: Shmuel non si concentra sui suoi obbiettivi, è troppo pavido o troppo sensibile per sparare ad un qualsiasi bersaglio, ma indugia su dettagli minimali, su quello che resta dell’umanità dopo un bombardamento o un conflitto a fuoco.
Come nella splendida sequenza dell’attacco all’edificio occupato dai terroristi, quando piuttosto che distruggere l’edificio, segue la donna che ha appena perso il marito e la figlia, e la osserva mentre cerca di coprirsi con abiti di fortuna, visto che i suoi sono andati a fuoco ed è rimasta nuda.
Lo strazio della madre che cerca di preservare la sua dignità nel dolore viene mostrato attraverso la lente del telescopio – scheggiata dai colpi subiti – mentre la voce della radio da i dettagli dell’operazione, in freddo linguaggio militare.
In un paese come Israele, che dipende dall’esercito per la sua stessa sopravvivenza, tutti hanno avuto a che fare con un passato tra le file di Tsahal, e Maoz non fa eccezione: come la straordinaria ricostruzione di Avi Folman, anche la sua viene da una esperienza diretta sul campo, dalla partecipazione in prima persona alla guerra.
La potenza retorica di Lebanon poggia sugli stessi elementi tipici dei film antimilitarista: come i marines mandati nella giungla, in gioco c’è la perdita della loro innocenza, la disperazione negli occhi di quattro ragazzi che non hanno nessuna voglia di fare gli eroi, che invocano la protezione delle loro madri, che raccontano con ingenuità la loro iniziazione sessuale.
Devono tenere duro per mantenersi esseri umani.
E’ solo il primo giorno di guerra.