“A Sangue Freddo” è la seconda opera de Il Teatro degli Orrori (ossia gli One Dimensional Man Pierpaolo Capovilla alla voce e Francesco Valente alle bacchette, l’ex One Dimensional Man Giulio Favero al basso”“nonchè alla produzione- e Gionata Mirai dei Super Elastic Bubble Plastic alla seicorde), dinamitardo combo che solo nel 2007 aveva pubblicato l’ottimo, acidulo e rumoroso Dell’impero delle tenebre.
è subito evidente la maggiore ricerca melodica dell’album rispetto al suo predecessore e una maggiore vicinanza col cantautorato italiano più nobile e ombroso, e una certa più rimarcata tendenza alla malinconia e allo struggimento, che si aggrappano sanguinanti al cuore carbonizzato, all’ugola incatramata e alla lingua impastata di un Capovilla tanto teatrale (vedi soprattutto le parti ‘recitate’, davvero impressionante in particolare la rilettura di “All’Amato Me Stesso” in “Majakovskij”) quanto istintivo e pazzoide, tanto salace e incazzosamente sarcastico quanto sofferente, sconfitto e incredulo di fronte all’amore che cade a pezzi e al mondo che va in malora.
Sono dunque due le dimensioni nelle quali si situa “A Sangue Freddo”: la prima è quella, tra tragicomicità e toni severamente apocalittici, della denuncia sociale (non politica in senso stretto) e dello sgomento di fronte ai malfunzionamenti del Mondo, come si vede nella rivoltosa anthemica title track (dedicata a Ken Saro-Wiva, poeta, scrittore e attivista nigeriano impiccato nel 1995: http://it.wikipedia.org/wiki/Ken_Saro-Wiwa), nel rifacimento della suprema preghiera cristiana “Padre Nostro”(non mi indurre in tentazione ma liberami dal male/ liberami dal male e dalla malinconia/dal malaugurio dai maldicenti/dagli ipocriti dagli ignoranti da questa congerie magari di uomini abbienti e miseri/il prossimo il remoto il passato il futuro non sono più niente/ non soltanto i terremoti/ ma le guerre e le ingiustizie/il languore della fame/Come se fosse giusto/ come se niente fosse/ E i dispersi in mare/e gli innocenti in galera e la fatica/il dolore e ancora la fame/come se niente fosse/come se fosse giusto/non soltanto Dio non governa il mondo/ma neppure io posso farci niente/se non fosse così, sarebbe terribile), o nell’esagitata “Alt!”.
Alcuni potrebbero ravvedere in queste canzoni un certo populismo e un’attitudine pateticamente ribelle. Il fatto è che non si tratta di una band politicizzata. L’atteggiamento del Teatro degli Orrori è quello di una persona o di un gruppo di persone che semplicemente rimangono ogni giorno sgomente dinnanzi ad una realtà avversa e grottescamente violenta, contro la quale l’unica scelta è la lotta non tanto dell’Intelletto quanto dello Spirito, uno Spirito che comunque accetta la propria, in un certo senso, ‘mediocrità ‘, in realtà collegato ad una mente tagliente e dotata di grande ironia a autoironia.
La seconda dimensione è quella personale, appartenente al solitario individuo protagonista dell’album. Riconosco in questa canzone non me, ma colui che avrei potuto essere, e non sono mai stato ha detto Capovilla a proposito di “E’ colpa Mia” (momento di analisi interiore quasi delicata e profonda autocritica nelle strofe, e sarcastico e arrabbiato sfogo nel rumoroso ritornello) nel diario del tour che si trova in Rete. Che sia dunque Capovilla o una proiezione di se stesso o un personaggio della fantasia ispirato dall’osservazione della realtà circostante, beh questo non ci è dato saperlo al momento. Fatto sta che costui ne deve aver visto davvero delle belle. In “Io Ti Aspetto” Pierpaolo recita si leggon cose terribili/ogni giorno nei giornali/alla tv non parlan d’altro/confesso di soffrire di paure
/forse non giustificate/ma io ti aspetto sai/IO TI ASPETTO/l’amore è una cosa così bella/una cosa così grande/una notte d’angoscia/non può che diventare una carezza/su quel dolce profilo/di persona per bene che sei.
L’attesa della persona amata diventa un momento di sobria angoscia e allucinata compostezza, un delirio sussurrato, soffocato da una coscienza imborghesita vittima di paranoici attacchi massmediali e vittima di se stessa, capace comunque di trovare una sorta di dignità , comunque assai risicata e poco credibile, in un momento di solitudine e sofferenza estreme. “Direzioni Diverse” (elettronica elegante, archi a lutto e livide schitarrate) prosegue in questa direzione, andando ancora più a fondo in quest’analisi spietata e insieme struggente dell’impossibilità del vivere e del relazionarsi con l’altro/a in questa confusa era dell’umanità in cui c’è poco tempo per ascoltare e/o poter comunicare esaustivamente quello che si prova: è un mondo diverso che voglio/altro che storie/senza nè despoti nè preti/più giusto e libero se vuoi/dove abbracciare il sole il mare la terra l’amore/quanto ti manca l’amore?/sarebbe stato bello invecchiare insieme/la vita ci spinge verso direzioni diverse/non te la prendere/non te la prendere, almeno una volta/il lavoro mi rincorre, adesso devo scappare/ti prego ascoltami/ascoltami bene, almeno una volta/solo poche parole.
In “Il Terzo Mondo” il piano sociale e quello individuale si sovrappongono: qui la famelica bramosia d’amore e i languori sentimentali collidono rovinosamente con l’immagine di un paesaggio in disfacimento in cui barcolla agonizzante una collettività ormai prossima alla fine. Come in una grottesca e tragica situazione in cui un carro armato piomba dentro una camera da letto facendo crollare assieme con mura e pilastri la sacralità del privato, l’individualità della persona è totalmente schiacciata e violata, mentre la mente è bombardata da immagini di guerra, di pulizia etnica, di tratte di schiavi, di intralci burocratici e di facce di politici corrotti.
“A Sangue Freddo”.
I cretini dovrebbero ascoltare. Le canaglie. I bastardi impuniti e impenitenti.
Ma non ascolteranno, ancora una volta.