“Mo Beauty” è come una tavola cromatica. Un’occhiata gettata velocemente ti fa vedere qualche sfumatura, le nuances più evidenti, quelle che balzano all’occhio, ma scrutandola attentamente si riesce a cogliere qualcosa di più. Questo per dire che assimilare questo disco ed associarlo ad un giudizio non è cosa da fare al primo approccio, sebbene non si parli certo di musica complessa, progressive o roba simile. La pop-wave, come alcuni la definiscono, panorama rifiorito in America anche grazie ai lavori precedenti di Alec, ha tra i suoi maggiori esponenti proprio Ounsworth, anche se non per questo si può parlare di un disco eccellente o di quelli che “vadano” ricordati. Se lo si ricorda, sarà per gusto personale, niente di più.
E’ come un filo che passa dalla nostalgia new-wave, ai giubili di Mika interrotti da Thom Yorke e la sua malinconica, psicotica e quantomai teatrale voce (in “Idiots in the Rain”, mentre altri echi di Radiohead risuonano in “Bones in the Grave”, quasi un pezzo espulso a forza dal vecchio, ormai, “Ok Computer), impregnandosi anche della tenerezza del British pop di “Holy, Holy, Moses”, che strizza comunque l’occhio a quelle atmosfere sudiste che si apprezzano nella cantautorale statunitense (e ancor di più in “South Philadelphia”).
Ballad country come “What Fun” sono difficili da scordare, e forse si possono classificare come singoli pregni di una tristezza sommessa che raggiungerà emotivamente molti ascoltatori. Il problema è che il disco emoziona solo in alcuni frangenti, risultando spesso freddo, ed oltre al momento appena indicato sono pochi gli altri attimi di contatto musicista-ascoltatore (certo, è importante solo per alcuni…) e forse bisogna aspettare “Obscene Queen Bee #2”, con le sue reminiscenze eighties e nineties, per togliersi il sorriso, ancora una volta.
Il disco è vario, tra il country, la musica popolare, il brit-pop e la new wave, sempre con i contorni rock che delineano praticamente tutta la carriera di Alec Ounsworth. Non si tratta certo di un capolavoro (anche se si può parlare di una produzione ben sopra la media), ma ascoltarlo più volte può comunque far scoprire una vena compositiva notevole (non una novità ), una necessità di variare il suono anche quando gli accordi di base delle canzone “sono i soliti” (grazie a fiati, tastiere, ecc.), e testi da vero rocker d’oltreoceano. Citare Philadelphia e New Orleans serve a poco quando la tua vera ispirazione è Tom Waits, dalla California (Pomona), ma non chiudiamola qui. Diamogli una possibilità , il disco ha il suo valore, al di là del già sentito che comunque pervade tutte e dieci le tracce.
E nel lettore il disco gira, gira, gira.
- MySpace
- BUY HERE
2. Bones In The Grave
3. Holy, Holy, Holy Moses (Song For New Orleans)
4. That Is Not My Home (After Bruegel)
5. Idiots In The Rain
6. South Philadelphia
7. What Fun
8. Me And You, Watson
9. Obscene Queen Bee #2
10. When You’ve No Eyes