La prima parte della classifica:
- THE 100 BEST ALBUMS OF DECADE [Part. 1, #100 —> #51]
Le classifiche dei migliori 20 albums del decennio divise per redattore:
Dopo cinque anni di attivitá ed al terzo tentatitvo i Deftones raggiungono quella maturitá stilistica che permette loro di spiccare il grande salto. Quella che fino a quel momento era solo una delle tante formazioni praticanti il metallo alternativo si ritrova all’improvviso catapultata verso altitudini neanche lontanamente immaginate. La ricchezza della varietá offerta e la qualitá artistica di “White Pony” richiedono molteplici ascolti per essere apprezzati nella loro totalitá: emotivamente schizofrenico grazie alla virtuositá vocale di Chino Moreno, intrigante nei testi e generalmente plumbeo nelle atmosfere dipinte, questo disco ha resistito ottimamente agli attacchi del tempo. Immortale. (Alessandro “AleBon” Bonetti)
Sì, nel 2004 Bjork poteva permettersi di guardarci tutti dall’alto in basso, forte di una carriera varia e fin troppo ricca di vette. Non solo, poteva pure permettersi di uscire con un disco che, senza dover rompere ogni cordone con il passato, era qualcosa di fortemente estraneo ed inedito per il music-biz: “Medulla” è un album che lascia poco spazio alla parole (e pensare che è praticamente composto di sole voci), è un album incompromissorio e certamente ostico. Però è un capolavoro, il vertice di una carriera (e credo che lo resterà , tanta ragionata meraviglia non è facilmente replicabile), capace di accarezzare con guanti di velluto (una “Submarine” leggiadra ed impreziosita dall’intervento di Robert Wyatt) e colpire duramente con bordate ritmiche d’avanguardia (“Where Is The Line With You” che, tra l’interpretazione sincera della stessa Bjork e gli human-beatbox Razhel e Mike Patton, declina futuro e paranoia come nessun altro prima). (Nicolò “Ghemison” Arpinati)
“Fell In Love With A Girl”, Michel Gondry, qualche mattoncino Lego e i Withe Stripes sono d’improvviso la next big thing del rock più o meno indipendente. In mezzo alle tante promesse mancate che hanno affollato i primi anni di questo decennio, la fiammata dei White Stripes si è dimostrata solida e duratura, guidata dal talento appassionato e ruvido di Jack White. “Elephant”, un paio di anni dopo ne ha sancito il definitivo successo, ma è con “White Blood Cell” che Jack e Meg hanno saputo raccontare al meglio cosa sono in grado di fare. Un’idea semplificata di rock n’ roll che sulla carta è lontanissima dal ventunesimo secolo e che invece ha saputo dimostrarsi in risonanza perfetta con questi tempi, frustrati e sommersi dalla propria complessità . (Matteo “matteob83” Benni)
La band a conduzione familiare, composta dai 3 fratelli Followill (Caleb-chitarra e voce, Jared-basso e Nathan-batteria) più il cugino (Matthew-chitarra), cresciuta a rock’n’roll e Bibbia è figlia di un predicatore itinerante, che raccolse la vocazione dal nonno Leon. Amanti delle schitarrate dirette, pulite e potenti, dimostrano anche nella musica quanto siano importanti le radici traendo forte ispirazione dal Southern rock, dal blues e dal garage. Capelli lunghi, pantaloni a zampa e baffoni (che addirittura influenzano il modo di cantare) a parte, i 4 di Nashville abbracciano lo stile di vita rock’n’roll e lo raccontano attraverso storie sincere di emarginati come la prostituta di “Molly’s Chamber”, l’ omicida geloso in “Joe’s head” o il travestito disperato nella Dylanesca “Trani”. Che lo stesso Bob Zimmerman in persona definisce come una canzone ‘incredibile’. Mica male come referenza per una band al disco d’esordio. (Riccardo “Friccardo” Valentino)
Gli Have A Nice Life sono due perfetti sconosciuti, due ragazzi americani senza volto, due musici provenienti dall’oscurità come discepoli del suono dell’oscurità . Il loro disco d’esordio è un’opera immensa, sia per come è strutturata sia per il suo valore artistico. Una paludosa melma lo-fi sommerge bassi turgidi e chitarre arrotate, scorre attraverso ipnotiche ritmiche metalliche e suoni rugginosi ed evapora in un pulviscolo brillante che si sparpaglia su ghiacciate ambientazioni dreamy dimenticate dalla luce. Le filtratissime voci si rannicchiano nelle fosche cavità scovate a fatica tra i suoni, si intersecano creando intrecci vocali di struggente onirismo, intonano canti di intensa disperazione tanto quanto di solenne religiosità (pagana, anzi, profana). “Deathconsciousness” si rivela essere un nuovo importantissimo punto di riferimento per la musica oscura, ma avrebbe le carte in regola, perchè no, per imporsi anche nel resto della scena musicale “‘alternativa’. (Luca “Dustman” Morello)
Qui non si parla di album che vanno e vengono, “”Fever To Tell” è un virus, un’infezione che ti mangia e ti lascia in cancrena; affanculo i vari antibiotici e vaccini. Canzoni che appiccano fuoco come un isterico in preda alla piromania, e fiammiferi che bruciano lentamente emozioni forti, come assenzio che scalda le tue viscere mentre scende. Il tutto confezionato dall’allucinante voce di Karen O: acida, punk, in qualche pezzo dolce , ma sempre sexy. Ed è proprio lei a imporsi sulle chitarre deliranti, accompagnate da una grancassa che vuole prenderti a sberle, mentre il charleston viene pestato con un’irruenza quasi dance. Puro garage-rock, che spesso prende sfumature noise, ed a volte ti manda in trip da dancefloor lasciandoti estasiato.(Matteo “guly” Guglielmi)
Ci sono diversi modi di rapportarsi a “Original Pirate Material” ma restringendo il campo ad una critica a posteriori che sia cosciente dello sviluppo che è seguito al debutto del lad di Birmingham, restano ben poche vie da percorrere. Subliminalmente mi attrae la via del ‘negativo’, ovvero ciò che OPM non è o non è potuto essere perchè solo questo dà la dimensione dell’impatto dell’album nell’impianto della sub-cultura britannica. Intanto fu il debutto di un ragazzino e non l’apice creativo di un guru del sub-mainstream; di quella giungla sotterranea che produce e distrugge in maniera se possibile più crudele dell’establishment. Mike Skinner non rientrava nei canoni di accettazione del network delle radio locali pirata, non aveva il piglio da assassino (Geezers need excitement / If their lives don’t provide them this they incite violence / Common sense simple common sense [da “Geezers Need Excitement”]), la camminata giusta e tantomeno un gusto lirico convenzionale. I suoi testi non parlavano di rivalsa ma di sconfitta, la vendetta era una fuga dalla realtà attraverso le droghe e non l’alcol (“The Irony Of It All”). La metrica al servizio della realtà di tutti i giorni e non l’opposto. “Original Pirate Material” è uno degli album del decennio perchè il rap e il garage europei sono morti quando hanno toccato il loro picco più alto e Mike Skinner ne ha scritto la colonna sonora funebre in rima. (Alex Franquelli)
All’inizio del nuovo millennio la comunità indipendente italiana soffre del male incurabile che da sempre la affligge: tutti che tendono a scimmiottare una volta gli inglesi, un’altra gli americani e nessuno che faccia l’italiano per davvero, e che invece di voler suonare il pun(c)k e la new wave si abbeveri alle cantautorialissime e raffinate fonti nostrane. Nessuno prima dei Baustelle. Ciampi, Endrigo, De Andrè, Morricone, e poi Gainsbourg in salsa pop, super pop, così pop che pure al Festivalbar farebbero (e faranno) la loro sporca figura. Ma quel radical chic del Bianconi e la sua degna comare Rachele non si limitano alla musica: i testi dei loro gioielli sono di un altro pianeta rispetto alla media nazionale. Tra Truffaut, Pasolini e Tondelli, diciamo. Anti omologata adolescenza torbida. Martina e il rasoio che inciderà le sue vene. Le vacanze dell’Ottantrè. Da “Il Sussidiario Illustrato Della Giovinezza” in poi il pop italiano non sarà più lo stesso. (Davide “Helmut” Campione)
Come faccia uno “‘yankee’ del profondo sud ad assumere con tale semplicità le sembianze di un menestrello gitano prima e di un’artista di strada parigino ora, resta un mistero. L’orchestra folk di Beirut trasloca in Francia e il risultato, come sempre stupefacente, evoca per romanticismo ed impatto melodico le migliori composizioni di Yann Tiersen. Parigi e i suoi amanti, siano essi abbarbicati sui gradoni di Montmatre o illuminati dai Bateaux Mouches che battono la Senna, hanno trovato in Zach Condon il loro più appassionato spettatore e in “The Flying Club Cup” la loro colonna sonora definitiva.(Alessio “Axelmoloko” Pomponi)
Gli Elbow sono troppo sottovalutati. Hanno avuto un buon successo di critica non seguito però da un altrettanto buono successo di fan perchè la loro proposta musicale è pop ma non è accessibile a tutti, c’è dentro troppa emotività . Negli anni hanno dato alle stampe quattro dischi magnifici, però questo “Asleep In The Back” li batte tutti per pathos e concretezza. Un disco che commuove eppure è sempre capace di arrivare al punto, senza perdersi troppo in chiacchiere e/o menate varie (ascoltare “Red”, “Any Day Now” e “Little Beast” per credere). All’epoca alcuni parlavano di loro come di un’ideale via di mezzo tra Radiohead e Portishead, direi come definizione per un’opera del genere ci siamo quasi. (Federico “Accento Svedese”)
Dio e Allah ci sono testimoni: l’ultimo decennio è stato contrassegnato dalla apologia della new wave e del post punk. Tra remake a buon mercato ma di buona fattura (The Horrors) e meravigliosi artigiani di lusso (Interpol, Rapture, Lcd Soundsystem), in questo revival un posto di rilievo spetta agli Editors. Nel 2005, la band di Tom Smith licenzia infatti uno dei classici del genere, “The Back Room”, 11 proiettili di wave pop chitarristico in bilico tra atmosfere Joy Division, bagliori di luce primi U2 e melodie da stadium rock Coldplay. Dall’apertura “Lights” al pezzo numero nove “Someone Says”, gli Editors mettono in fila una incredibile serie di hit devastanti, oscure ma non troppo, taglienti ma fino a un certo punto e insomma “‘indie’ sì, ma con infinite potenzialità mainstream. Peccato che dopo lo splendido “An End Has A Start” (2007), quest’anno abbiano tirato fuori una cosa piuttosto mediocre come “In This Light An On This Evening”. Si rifaranno (speriamo). (Davide “Helmut” Campione)
Mandolini, ukulele, accordion, ottoni: sono gli strumenti con cui Beirut aka Zach Condon, appena diciannovenne, forgia il suo brillante esordio. Domiciliato ad Albuquerque ma con il cuore sospeso tra i Balcani, la Mitteleuropea e la Rive Gauche della Senna, il giovane musicista americano fonde in un pastiche pregno di romanticismo i canoni dell’indiepop con il suono solenne e al tempo stesso malinconico delle fanfare proprie della tradizione dell’Europa orientale, debitore (dichiarato) della Koà§ani Orkestar e di Goran Bregovic nonchè di tutto l’universo klezmer. In “Gulag Orkestar” Beirut tratteggia una visione romanzata di un’Europa da cartolina sbiadita, e con la sua voce calda, carica di empatia, da crooner navigato, mette il sigillo definitivo su quello che rimane uno dei migliori esordi del decennio appena chiuso. (Giuseppe “Mr. Soft” Muci)
Un passato da eroi dance anni novanta come Sub Sub, un presente (ed un futuro) da icone alternative pop come Doves. Talmente alternativi che se li fila più la critica musicale che il pubblico, se fossero stati più fortunati (e forse esteticamente più appetibili) a quest’ora al posto dei Coldplay ci sarebbero loro e le masse impazzirebbero per le loro canzoni (ma, vista la fine che hanno fatto i Coldplay, è stato forse meglio così). “Lost Souls” è uscito nel 2000 come “Parachutes” dei Coldplay solo che è infinitamente meglio: morbide e sognanti ballate (“Break Me Gently”, “Here It Comes” ), anthems in odor di punk (“Catch The Sun”), eleganti suite (“The Man Who Told Everything”) per un disco che non è stato valorizzato come avrebbe dovuto. I Doves hanno in seguito dato alle stampe dischi assolutamente magnifici, ma la magia del debut album resta insuperata ed insuperabile. (Federico “Accento Svedese”)
Come un fulmine a ciel sereno il quartetto originario di Lund valica i confini nazionali ed irrompe sulla scena europea con un lavoro di eterea bellezza. Coniugando l’irresistibile algiditá del silicio con il riverbero delle chitarre tanto caro alla scuola shoegaze e l’accessibilitá del pop piຠsognante, i Radio Dept. hanno cesellato un’opera in cui emozioni e leggerezza si tengono per mano in spirali sonore surreali e sporcate da lievi screziature noise. Un disco dai colori autunnali capace di suscitare un turbinio di calde sensazioni nel cuore dell’ascoltatore, una perla musicale di assoluto valore. (Alessandro “AleBon” Bonetti)
Dopo quattro anni di silenzio Nick Cave e i suoi fidati Bad Seeds concepiscono un album straordinario, l’apice di quel percorso di riflessioni liriche e disperate sull’amore, sempre amaro, perverso e crudele. Le poesie si fanno ballate, ricche e attentamente costruite, nota dopo nota, tese verso pozzi di perdizione e sofferenza. Niente gioie in questi suoni, solo lamenti e invocazioni. Il magico violino di Warren Ellis traccia melodie all’interno delle quali non resta che bearsi, senza via di uscita. Mick Harvey orchestra magistralmente il gruppo lasciando al centro della scena, cullata dal pianoforte, la voce di Nick, strascicata e sofferente come mai prima, capace di vette aspre e faticose intercalate a profonde e buie vallate. I cori delle McGarrigle punteggiano di gospel delle canzoni che si aprono e si distendono come mai prima, mischiando generi e letture, abbandonando il rock per abbracciare molteplici fonti e riferimenti musicali. Un disco perfetto per ascolti infiniti. (Michele Tioli)
Furono attesi a lungo e poi acclamati. La super-band Battles sforna il debut LP che smonta definitivamente quell’antico modo canonico di fare rock, ridotto all’osso dai 90s tanto ‘post’ che qui riecheggiano. La chitarra math del maestro caballero Ian Williams si unisce alla folle anima di Tyondai Braxton e al basso della lince David Konopka. Ma l’anima del disco qui è la batteria rabbiosa di John Stainer (Helmet) che guida quella valanga di noise-looping, idiomatici fraseggi chitarristici e synth minimali che caratterizzano questo lavoro, il tutto contrassegnato da un sarcastico e quasi ironico approccio stilistico. Schizofrenici ma matematici dentro: una delle vere rivelazioni e grandi rimangono le aspettative per il futuro. (Alessio “BBB” Miseri)
Come una danza rituale in piena periferia urbana, tra muri di cemento e luci al neon: questo è “Drum’s Not Dead”, tribalismo malato e sbilenco frutto di droghe tagliate male e strumenti accordati peggio. I Liars non amano gli steccati delle categorie musicali, e per la terza volta scavalcano ogni recinto lasciando l’ascoltatore privo di facili appigli: dub e no-wave, New York e Berlino, chitarre noise, psichedelia alla Animal Collective, tribalismi post-industriali. L’istrionico Angus Andrew rimesta con cinica ossessione in questo bolo primordiale per narrare l’epopea di Drum e Mt Heart Attack, personaggi cardine del disco. Musica da Centro d’Igiene Mentale. (Giuseppe “Mr. Soft” Muci)
Con i precedenti lavori, qualitativamente eccelsi, Elliott Smith aveva raggiunto livelli eguagliati da pochi altri songwriter della sua generazione (e non solo), e in quel fatidico 2003 era pronto per realizzare un progetto che era un po’ il suo chiodo fisso: un doppio album che eguagliasse il “White Album” quanto ad ambizioni e perfezione melodica. “From A Basement”…”, per cause di forza maggiore (il suicidio dell’artista, 21 ottobre 2003), non sarà quel doppio disco al quale Elliott aspirava, ma uno splendido collage di quattordici brani sospesi tra esplosioni rock, ballate folk e gemme pop; “pop” da intendere come quel lato più introspettivo e raffinato del rock, che il cantautore americano rappresentava alla perfezione. Un disco di cui innamorarsi ascolto dopo ascolto, cogliendone a pieno le sfumature e la profondità date da un autore fragile e immenso che purtroppo ci ha lasciati troppo presto. (Marco Renzi)
Pietra miliare del rock estremo, ma nè veramente metal, nè post-grunge, nè pienamente progressive, nè per l’amor di dio nu metal, stupefacente manifesto di una band che piace sia ai metallari sia a chi non è assolutamente avvezzo a sonorità ‘pesanti’, “Lateralus” è un’opera monumentale (parliamo di 79 minuti e 30 secondi di musica!), piena di riferimenti oscuri, complessa e difficile , sia per quanto riguarda i suoi contenuti (pregni di un misticismo e di un esistenzialismo dai risvolti inquietanti che si intrecciano con atmosfere psicotiche e claustrofobiche) che per lo stile musicale. Il dolore dello spirito e del corpo è solo un’illusione, perchè l’eternità ci appartiene. Questa è solo una dimensione temporanea e un giorno torneremo ad essere quello che eravamo, torneremo a quello stato che nella vita terrena non possiamo più ricordare: questo in pratica è il concetto che James Maynard Keenan espone in Parabola. E’ un inno alla catarsi o la celebrazione di una crudele illusione? Non lo sappiamo, ma suona stupendamente bene. Una menzione speciale se la merita il drumming ultratecnico e alquanto creativo eppure mai irritantemente intricato del sopraffino Danny Carey, uno dei più grandi batteristi della nostra epoca. (Luca “Dustman” Morello)
Così canadesi i Godspeed You! Black Emperor nel loro modo di vedere la musica, così intimistici, orchestrali, epici. Ascoltando questo “…Antennas To Heaven” sembra proprio di attraversare le enormi vallate del nord america, tra la neve, i grandi laghi e le maestose, impetuose cascate del niagara. Quella “Sleep” tanto soffice nell’anima ma che poi si trasforma in un onda anomala megalitica. L’interminabile, intensa, magnifica “Storm” che sembra proprio la colonna sonora delle niagara falls. Poi l’omonima “Antennas To Heaven” eccezionale nel suo evolversi a inno di un kraut-rock degli anni 00 e poi nella lullaby piangente che caratterizza tanto questi ragazzi e tutto il gruppo della constellation records che ci scuote le anime ormai da quasi un decennio. (Alessio “BBB” Miseri)
Questa volta è inutile girarci intorno: Ryan Adams è il più grande cantautore della sua generazione. Eccessivo, folle, irascibile, geniale, appassionato, tracotante, ma soprattutto dotato di una classe immensa. “Love Is Hell” è il suo capolavoro, il manifesto del devastante senso melodico messo in campo dal menestrello di Jaksonville, un florilegio di ballate dove confluiscono il suo amore per il rock vecchio stampo e l’alternative country. Da “Afraid Not Scared” ad “Avalanche” tutto è suonato così perfettamente che anche il cuore più duro cede per forza di cose alle note ed alla voce tonda e prepotentemente malinconica di Adams. Ciliegina sulla torta è la cover di “Wonderwall” degli Oasis, qui affogata in atmosfere di cristallina purezza, limpide nel sublimare l’interpretazione dell’ex Whiskeytown verso quel lembo di Terra Promessa abitato da Elliott Smith e da qualche altro semi-Dio. (Giuseppe “Joses” Ferraro)
Il trio inglese con questo “Origin of Symmetry” uscì, nel 2001, sul panorama internazionale dopo il discreto successo del debut album “Showbiz”. Singoli azzeccatissimi come “New Born” e “Bliss” non potevano che lanciare un disco del genere, che trova però i suoi veri punti di forza nei riff potentissimi di basso/chitarra di “Hyper Music” e “Plug In Baby”, orecchiabili ma veramente devastanti anche in concerto, e negli ultimi brani del disco, sicuramente notevoli in quanto a composizione (soprattutto “Megalomania”). Eccezionale anche la cover di “Feeling Good” di A. Newley e L. Bricusse e il perfetto Bellamy al piano in “Space Dementia”. Da avere. (Emanuele “Brizz” Brizzante)
Dicembre 2000, in macchina, non appena partì “He’s Simple He’s Dumb He’s The Pilot” dalle casse stereo ricordo di aver esclamato un Porca puttana! sorridendo. Leggere sperimentazioni sonore, atmosfere computerizzate (ma stavolta siamo molto più nel mondo analogico che altro, a dir la verità …) e un concept album stupendo sul mondo della tecnologia che avanza, dei robot che sostituiscono gli uomini su un universo allo sfacelo. La voce di Jason Lytle suona come quella del vostro migliore amico, pulita, angelica: trema leggermente come se si vergognasse di raccontare queste storie. Il sound è stupendo, orchestrale, a bassa qualità , un incrocio tra Radiohead e Beck: folk riempito e sporcato da una band vestita di flanella, con le barbe lunghe che invece di andare a tagliare gli alberi ha deciso di imbracciare gli strumenti e consegnare alle stampe uno dei migliori episodi musicali in dieci anni. E che si fottano tutti i ragazzini che guardando “Tre Metri Sopra il Cielo” dicono …bella questa canzone…chi è il gruppo che la suona?. Voi sapevate già tutto dieci anni prima. (Giovanni “giov” Venditti)
I Soad, quartetto armeno che ha spopolato per tutti questi ‘anni zero’, ha prodotto nel 2001 uno dei migliori album del decennio, ridefinendo il senso di alternative metal (da alcuni impropriamente definito ‘nu metal’ con questo “Toxicity”). Melodie dal gusto orientale miste a metal potente e a rock da classifica, riff improbabili e cambi di tempo improvvisi, con l’indimenticabile voce di uno dei migliori e più originali vocalist degli ultimi 20 anni: Serj Tankian. Da digerire dal primo all’ultimo secondo senza sosta, passando per l’aggressività convulsa di “Bounce” e “X”, senza tralasciare i comparti melodici di “Aerials” e “Chop Suey!”. Album perfetto. (Emanuele “Brizz” Brizzante)
Fatti. Cose incredibili. Ottima musica. Leggende. 2004, una band di ragazzini di Sheffield inizia a suonare nei locali della zona. Regalano demo ai loro concerti pensando che nessuno vuole pagare per una band che non è nessuno. La loro musica circola su internet, i concerti diventano sold-out ovunque, e nemmeno hanno un disco (Leggenda). Quando questo finalmente esce, le sue 13 tracce di puro Indie-rock intelligente e sarcastico, passionale e schietto, battono il record di vendite degli Oasis (Fatto). “When the Sun Goes Down” rappresenta il tipico sguardo ironico e tagliente sulle periferie inglesi, “I Bet You Look Good on the Dancefloor” ha una batteria che detta il ritmo di tutti i locali U.K. , mentre “Mardy Bum” rallenta le accelerate punk giovanili, per un romanticismo sincero (come l’accento Yorkshire di Alex Turner). Popolarità incredibile, nemmeno cercata, potrebbe screditare un genuino, imprevedibile, straordinario talento? No (Fatto). (Riccardo “Friccardo” Valentino)
Kazu Makino e i fratelli Pace. Come farne a meno. Questo è il loro capolavoro, un album post-moderno sempre fuori moda, ma proprio per questo costantemente attuale. Si passa drasticamente da brani addolciti dalla voce di Kazu (la bellissima “In Particular”) a sonorità più noise-rock e distorte come fosse la cosa più naturale del mondo, senza mai perdere quell’eleganza di fondo che li caratterizza e li rende unici. Abbandonati i suoni più vicini ai Sonic Youth dei dischi precedenti, i Blonde Redhead sperimentano melodie d’avanguardia no-wave, anche grazie alla supervisione di Guy Picciotto (Fugazi). Tra il pop e il noise esiste un punto di contatto che si chiama “Melody Of Ceratin Damaged Lemons”. (Silvia “Anais”)
Registrato nella stessa sessione di “Kid A” (ad eccezione di “Life in a Glasshouse”) “Amnesiac” è, come dichiarò Thom Yorke in un’intervista, “un gemello separato alla nascita” dal predecessore. I Radiohead trattano tematiche importanti come la guerra, il consumismo, la globalizzazione e vestono le liriche di Yorke con gusto e stile. Sono lontani i tempi di “Pablo Honey” in cui venivano etichettati come i nuovi U2, “Amnesiac” è l’ennesima prova di una band matura, che già con “Ok Computer” ha fatto il suo salto di qualità e che non fa altro che parlare ad un pubblico vasto con coraggio e rispetto. (Francesco “Lazzaroblu” Bove)
Will Sheff è un poeta, uno dei pochi musicisti che nel corso del tempo diventano altro, si trasformano in artisti a tutto tondo, da bruchi si fanno farfalle con occelli arcobaleno e volano via. Tuffarsi nelle melodie arcuate dei sei americani è un’esperienza catartica, il punto caldo della musica, il ritorno ad Itaca, la soluzione a tutto ciò che si sta cercando. Sheff è impareggiabile nel raccontare storie complesse, popolate di incubi e fallimenti insuperabili,verbosi racconti che miracolosamente si sciolgono con la profonda leggerezza delle cose sacre. Stavolta le atmosfere si tingono di nero senza rinunciare alle callosità sonore che dal folk accelerano fino ad arrivare al rock’n’roll. Album dal grande impatto emotivo, “Black Sheep Boy” gode degli splendidi arrangiamenti di Johnatan Meiburg, mischia ballate introverse a brani dal respiro eterno. “Black” e “For Real” diverranno il manifesto della band da qui in avanti. Si aspettava la consacrazione: eccola puntuale. (Giuseppe “Joses” Ferraro)
Quando Jack e Meg White si rinchiudono nei Toerag Studios di Londra per incidere il quarto disco sono già il gruppo più fashion in circolazione. Impensabile che ne sarebbero usciti con la loro migliore produzione. E invece “Elephant” rappresenta l’apice della produzione del duo garage-blues-rock di Detroit. Un viaggio nel suono scarno e cupo, con strumentazione analogica precedente al 1975. Vi si trova dal tormentone “Seven Nation Army”, che ogni tifoso italiano accosterà al trionfo mondiale di Berlino, la blues-garage essenziale di “Girl, You Have No Faith In Medicine”, e la cadenzata “The Hardest Button To Button”. Un disco che si ascolta tutto d’un fiato, con il ritmo e la durata giusta. E una volta terminato si è tentati di premere il tasto ‘repeat’. (Bruno De Rivo)
Into the future. Così recita ad un certo punto la seconda traccia di “XTRMNTR”, “Accellerator”. Ed in effetti sì, questo disco ci ha proiettato almeno virtualmente agli albori del nuovo millennio nel futuro. Musicalmente si respira l’eredità di quanto di buono era uscito fuori dall’incrocio negli anni ’80 tra musica rock e rave culture: eredità testimoniata da Mani degli Stone Roses al basso che, non a caso, ha fatto una comparsata in “24 Hour Party People”. Ritmi sintetici si scontrano con un basso che da Peter Hook in poi ha fatto tanta di quella fortuna. L’elettronica si fonde con il suono ‘umano’ e ne escono fuori o incubi malati e ossessivi (“Pills”) o kraut rock marchiato anni zero (“Blood Money”). O brevi scorci di pace (“Keep Your Dreams”). E la voce di Gillespie, ti ricorda sempre che elettronici o rock’n’roll, questi sono i Primal Scream. E sono qui oltre che per stupirci musicalmente, per ricordarci che l’incubo degli anni zero non è solo musicale ma anche culturale e politico: Exterminate the underclass, exterminate the telepaths. No civil disobedience. Il punk rock del 2000 è questo, poche storie. (Emanuele “kingatnight” Chiti)
Se mai fossi davvero costretta a dover prendere dieci cd dalla mia collezione prima di essere esiliata su un’isola deserta, ne saprei scegliere senza incertezze solo due. Uno è Transatlanticism. Saper dare una risposta a ogni domanda, saper dire esattamente le cose che si vorrebbero sentire è un dono che hanno in pochi. Ben Gibbard ce l’ha, ha una sensibilità che pochi altri autori possono vantare. Undici canzoni in cui i testi si fondono perfettamente con la musica ed è tutto così semplicemente emozionante che è impossibile non trovarsi ricoperti di brividi e con le lacrime agli occhi. Il tutto reso perfetto dall’impeccabile produzione di Chris Walla. Il disco che ogni recensore vorrebbe avere tra le mani per poter dare senza la minima esitazione cinque stelline piene. (Cristina Bernasconi)
Dopo le rovine urbane prevalentemente cupe e strumentali dell’esordio, in “Untrue” è finalmente l’uomo a prendere la parola. Come una sorta di araba fenice, dalle ceneri di quel mondo fatiscente Burial fa rinascere la speranza attraverso la voce dell’anima, il Soul, o meglio l’Hypersoul, l’unico codice comunicativo possibile per descrivere l’esistenza umana hic et nunc. Un luminoso canto di preghiera e d’amore contestualizzato nella modernità dunque, in cui l’inglese, rafforzando il legame con le ritmiche 2-step (“Near Dark”), sceglie aeree landscape ambientali (“Dog Shelter”, “Endorphin”) e perfino celestiali invocazioni proto-house (“Untrue”, “Raver”) per dar vita ad un mondo che nella sofferenza riscopre bagliori di vitale umanità , pur se ancora costretti in liriche amare e vocals femminili spesso frammentarie e distanti (i plumbei cieli di glitch in “Ghost Hardware”). Manipolando la multiforme ed inespressa potenza dell’ Hypersoul, Burial porta il Dubstep allo stato dell’arte per scrivere un trattato sonoro di sconvolgente bellezza sulla condizione umana degli anni 2000. (Davide “Helmut” Campione)
Se “Desperate Youth, Blood Thirsty Babes” era stato un buonissimo primo album, con “Return To The Cookie Mountain” i Tv On The Radio rasentano l’eccellenza. Mirabile mistura di sonorità gelide e passionalità soul, di paranoie urbane e turbata sensualità , “Return To The Cookie Mountain” è un album imprendibile e misteriosamente affascinante che molti critici si sono divertiti a smontare e rimontare con alterni successi, in cui spiccano in particolare l’irresistibile “Wolf Like Me” e l’intensa “Blues From Down Here”. Un album che sembra rubare elementi dai generi più disparati (gospel, funk, psichedelia, new wave, shoegaze, elettronica”…) ma che non è solo il risultato della somma di ingredienti diversi accatastati l’uno sull’altro: tutto infatti scorre in maniera organica e naturale, insieme alle armonie vocali di Kyp Malone e Tunde Adebimpe. David Sitek (chitarrista del gruppo) si rivela poi un grande produttore capace di forgiare un suono fantastico e mettere ordine tra tutte le idee della sua band. In “Province” troviamo ai cori addirittura David Bowie, un fan che insomma non tutti possono vantarsi di avere. (Luca “Dustman” Morello)
Un disco che è riuscito nell’impresa di rendere una cosa sola house music e pop di consumo (e dici nulla…). All’epoca lo sentivi pure nei supermercati eppure capolavori come “One More Time”, “Harder, Better, Faster, Stronger” e “Digital Love” hanno uno spessore infinitamente superiore alla paccottiglia che si ode di solito come sottofondo musicale nei supermercati. “Discovery” è sostanzialmente un disco di canzoni che dopo quasi nove anni suonano ancora che è una meraviglia, un’opera in cui c’è un intero mondo dentro, il mondo di due ragazzi parigini che con entusiasmo fanciullesco hanno saputo conquistare la gente facendola ballare e la critica musicale facendola pensare. Eterno. (Federico “Accento Svedese”)
Difficile ritrovare tanta grazia in un solo disco al giorno d’oggi. “O” ha praticamente tutto: un grande songwriting, una voce intensa, una splendida seconda voce femminile e ha le canzoni. L’esordio di Damien Rice, arrivato da noi con un paio di anni di ritardo (non c’era l’eco così forte delle blogzines ad annullare tutte le distanze) in breve tempo è riuscito ad affermare il cantautore irlandese some uno dei migliori in circolazione, superando di due spanne il collega David Gray con una formula semplice ed efficace: strumentazione acustica, archi e il duetto di voci con la bravissima Lisa Hannigan, vero valore aggiunto di una formula che non si è ripetuta agli stessi livelli con il successivo “9”, comunque un buonissimo lavoro. Questo però è inarrivabile, il classico primo disco in stato di grazia, che mette l’artista di fronte al difficilissimo compito di dover eguagliare se stesso. Capolavoro di rara dolcezza e intensità . (Enrico “Sachiel” Amendola)
Potrei limitarmi a scrivere i titoli dei ventidue pezzi che compongono questo disco. Sarebbe abbastanza per suscitare la curiosità verso quel genio che risponde al nome di Sufjan Stevens. Sì, è un genio, nè più nè meno. Tirare fuori un disco di più di un’ora sull’Illinois senza mai un calo di intensità , di originalità , in grado di togliere il respiro, può essere solamente l’opera partorita dalla mente di un genio. Momenti densi, pieni di archi, fiati, chitarre acustiche, elettriche e cori, alternati a momenti più minimali di sola chitarra acustica/piano e quella sua voce calma, vellutata. Un disco da ascoltare tutto d’un fiato, senza opporsi a quell’atmosfera magica di cui è permeato, che riesce a portare la mente altrove, capace di farti vivere in un film meraviglioso con una colonna sonora da oscar. (Cristina Bernasconi)
Gli At The Drive-In non devono riformarsi. Non ha senso farlo e men che meno ne avrebbe nel loro caso. Hanno spento la luce nel momento di maggior fulgore, hanno prevenuto la fine della loro musica attraverso il suicidio del sodalizio, sono divenuti immortali scegliendo di morire e onestamente non c’è compimento più giusto e vero a testamento di un album, “ROC”, assolutamente non perfettibile. La rabbia genuina si è poi persa in rivoli (soprattutto Sparta e Mars Volta) che hanno sceso la montagna per galleggiare sul mare con gli altri. “ROC” riposa sulla vetta e non si reincarna ma trova nel tempo degli imitatori e qualche plagio. La vera furia hardcore non la si compra soprattutto perchè chi potrebbe venderla dorme sul mio scaffale e non ha alcuna intenzione di vivere di nuovo. (Alex Franquelli)
Qualcuno, ha etichettato frettolosamente i Bloc Party come successori dei Franz Ferdinand. Ehm, no. “Silent Alarm” è un lavoro si, a tratti danzereccio, ma molto meno spensierato. Quando i battiti aumentano non muovono le anche, ma qualcosa meno istintivo. I riferimenti principali poi, sono il post-punk e la new-wave 80′. Tutte le 13 tracce sono contraddistinte da un senso di confusione giovanile, una specie di lamento (spinto anche dal cantato urlato, spigoloso, del frontman Kele Okereke) figlio di infruttuose riflessioni che lasciano un senso di sconcerto. Le strutture, delle canzoni, per contrapposizione, sono rigide e ben definite, la batteria, seppure frenetica come in “Like Eating Glass”, è precisa e matematica. Le chitarre, pulite ed energiche, nel singolo “The Banquet” si rispondono e si intrecciano perfettamente. Il ritmo serrato si abbandona in rari episodi, come la malinconica ballata “So Here We Are”. Un disco ambizioso, energico ed emotivo, intenso. (Riccardo “Friccardo” Valentino)
Mi sento in debito nei confronti di Chris Martin e soci anche solo per questo disco uscito quasi dieci anni fa. Tutti sappiamo poi come sono andate le cose e quanta fortuna abbia riscosso la band, però le vette raggiunte da “Parachutes” non si sono più ripetute. Inevitabile. Poco importa perchè queste dodici gemme di pop-rock lucente non hanno perso un briciolo di tutta la loro semplice perfezione e ancora oggi fanno spesso capolino dalle parti del mio lettore. Magari i testi non sono così interessanti, ma da certi tipi di soluzioni non si cerca la profonda poesia di un cantautore. Si cerca la strofa sincera da poter cantare senza sentirsi dei mentecatti. I primi Coldplay sapevano esattamente come emozionare con la perfezione della semplicità . Credetemi, è tantissimo. (Enrico “Sachiel” Amendola)
La vita di città con il suo caos, i vestiti in ordine e le troppe parole per sopravvivere doveva stare stretta a Justin Vernon, se è vero che per registrare questo disco si è andato a rifugiare nella solitudine di una baita persa tra i monti imbiancati della sua terra. Silenzio e una chitarra. Ed una voce straordinaria per decretare la felicità di 37 minuti scarsi di sublime suono. E’ tutto così semplice e perfetto in questo disco, ogni nota è una girata di mestolo nello stufato che cuoce lento sul fuoco, una continua corsa verso casa. Melodie fluide e colme d’armonia come i cambi di direzione degli stormi di rondine, atmosfere odorose da cioccolata calda sorseggiata dinanzi al camino mentre fuori cade una pioggia sottile. Una padronanza totale della voce, che diventa strumento aggiuntivo e non semplice accompagnamento, ed emozionanti saliscendi verso un falsetto angelico e sanguigno allo stesso tempo, imprimono un marchio indelebile sulle qualità di questo ragazzo del Wisconsin. (Giuseppe “Joses” Ferraro)
A due anni da quell'”Alligator” che, nel 2005, mise in subbuglio l’intera blogosfera, i The National ritornano con un album perfetto. Lo si capisce fin dalla prima traccia, dal tessuto piano-driven di “Fake Empire” dove le corde baritonali di Matt Berninger si appoggiano navigate, ma è perfetto anche quando la stanza si riempie di fumo e le bacchette di Bryan Devendorf si fanno precise e severe, (“Mistaken For Strangers”, “Brainy”). Un dipinto decadente, un bicchiere rovesciato, una tappezzeria livida. Una raffinatezza d’espressione che oggi conta pochi eguali. A dimostrazione, si ascoltino i pezzi più lenti e morbidi (“Green Gloves”, “Start A War”). Immaginatevi gli Interpol acustici ed immersi nell’autunno di Brooklyn, immaginate di aggiungere una dose di cantautorato cupo e languido. Ciò che risulta è lucida rassegnazione, è disincanto, è un ballerino di lento, il migliore dell’universo. (Tommy)
Questa release di Josh Homme e soci è destinata a rimanere nella storia, un album trasversale che lo si può trovare in camera del tizio indie, del punkettone e anche del metallaro; per quanto riguarda gli snob sicuramente conosceranno il riff di “No One Knows”, il resto probabilmente presenta una quantità di metallo esagerata per loro. “Songs For The Deaf” risulta essere un must in ogni senso, un connubio di potenza, genialità e melodie superpompate e perentorie che stordiscono, senza mai cadere nel banale; Josh Homme è il mentore, Lanegan il vicino di casa che dà una mano, Nick Oliveri il pazzo che si denuda ai concerti, e soprattutto Dave Grohl, ospite d’eccezione, straripa alla batteria. Geniale. (Matteo “guly” Guglielmi)
è la solita vecchia storia- londra- un produttore famoso- dì un po’, li hai visti i ragazzini nelle rivolte?- ehi, guarda che quello non è sid vicious– ehi, guarda che quello lì è troppo furbo per morire- the boy looked at johnny, questa non l’hai già sentita in una canzone di patti smith?- e tutte le cose che ci mettono dentro- artisti che si bucano nei cessi e ragazze che leggono l’ulisse- marci e inglesi fino al midollo- marci e basta- è così, da una parte dell’oceano ci sta quel fighetto di julian casablancas– con i suoi garage e le sue modelle- dall’altra loro- come tanti anni fa- come quando c’era richard hell e come quando c’erano i clash– questo non è il fallimento-questa è soltanto l’imitazione del fallimento- e come loro questi non sono destinati a durare- no, effettivamente no- è la solita vecchia storia- non è sporco- non è cattivo- ma dio solo lo sa se questo non è indie’n’roll. (Claudia Durastanti)
Quando usci “Neon Golden”, non ce ne eravamo ancora accorti. Del fatto che sarebbe diventato un classico, intendo. Non aveva apparentemente i numeri per diventarlo, tanto che è difficile anche inquadrarlo in un genere: indie-tronica? Neo folk? Post post-rock? Non si tratta nemmeno del disco d’esordio di un gruppo di giovani promesse, infatti i Notwist sono trentenni con un passato hardcore e 4 dischi alle spalle. Eppure “Neon Golden” è un capolavoro, per sperimentazione musicale (in questi primi anni del 2000 l’elettronica tende a esplorare nuovi territori toccando il pop e il post-rock), per perfezione formale (ogni brano è un piccolo gioiello, completo, non hai mai l’impressione che manchi nulla) e pure a livello emozionale (voci sussurrate e basi minimali tra campionamenti e archi ci introducono in atmosfere malinconiche e senza tempo, di un’eleganza indescrivibile se non tramite l’ascolto). (Silvia “Anais”)
Dopo i primi timidi passi compiuti con “Von” e dopo l’exploit avvenuto con lo splendido “àgà…tis Byrjun”, per i Sigur Rós giunge il momento della consacrazione. “( )” testimonia il fatto che il quartetto islandese non è una band di passaggio ma una solida realtà del rock indipendente e non solo. Il nome dell’album è, come si vede, quanto di più strambo e minimalista sia mai stato ideato, mentre i brani, lunghi, languidissimi e apparentemente ‘immobili’, non recano titoli nè testi sensati, ma presentano solo una sorta di vocalizzi in un linguaggio privo di significato, monotono e primitivo, chiamato ‘hopelandic’ (potremmo tradurlo in italiano con ‘speranzese’). Eppure tutta questa misteriosità non ha impedito all’album di raggiungere un grande successo di critica e pubblico. In un’epoca di disperazione soffocata, di risate a denti stretti e piccoli e grandi egoismi, “( )” riporta nella vita, attraverso le sue eteree musiche, un senso di purezza e di innocenza ormai rare. Ma “( )” è non solamente una potente medicina che cura le ferite o ci purifica. Esso va ben oltre. E’ la più dolce delle vertigini, mentre si rimane sospesi tra il divino e l’umano, tra l’infinito e il nostro fragilissimo universo interiore. E’ una lacrima intercettata dal più fioco ma anche il più incantevole raggio di luce, impressa per sempre nella memoria. Un’immagine che ci vivifica e ci sconfigge, ci culla e ci fa innamorare anche quando l’amore ha perso. (Luca “Dustman” Morello)
Molti considerano “A Ghost Is Born” come il punto più alto della carriera dei Wilco, ma io la penso diversamente, perchè la leggerezza di un disco come “YHF”, unita a quella ventata di novità in chiave pop lievemente sperimentale ci regalò un disco meraviglioso. Praticamente l’alt-country che incontra i Beatles che incontrano i Grandaddy, il tutto descritto dalla penna di un Jeff Tweedy in stato di grazia. Canzoni come “Jesus Etc”, “War On War”, “Heavy Metal Drummer” sono ormai dei nuovi classici della musica moderna e il disco tutto sarà uno di quelli che tra venti anni in molti ricorderanno ancora guardandosi indietro nel tempo. Un nuovo classico del rock. (Enrico “Sachiel” Amendola)
All’inizio del nuovo millennio la scena indie era stagnante e dentro le riviste specializzate si trovavano sempre gli stessi gruppi e poche novità rilevanti. In America come in Inghilterra nessuno sembrava poter dare il via a un vero e proprio movimento di massa, una rivoluzione sonora. Fino a che un gruppo di cinque giovani newyorkesi decide di registrare un disco e riscrivere in parte la storia del rock moderno. “Is This It” degli Strokes è il disco che ha riportato alla ribalta un rock chitarristico tirato e abrasivo: riff veloci, canzoni di pochi minuti e un’aggressività sonora piena di quella genuina arroganza che ha solo chi ha davvero qualcosa da dire. Undici tracce e poco più di mezz’ora di musica. Mezz’ora è bastata al mondo per risvegliarsi dal torpore; mezz’ora che ha fatto nascere migliaia di band, creato un vero e proprio movimento e riacceso un interesse per una scena addormentata. I testi e la voce di Julian Casablancas, la velocità e l’intuizione di Albert Hammond JR e una batteria che sembra un metronomo hanno fatto saltare sulla sedia centinaia di discografici. Canzoni come “Last Night” “The Modern Age” “Someday” o “Hard To Explain” sono delle gemme grezze che colpiscono dritto al cuore in pochi secondi. Da New York a Londra è stato tutto un vestirsi come Nick Valensi, volere quei riccioli che tanto piacciono alle donne come Fab Moretti e poter andare in giro con quell’aria scazzata da rockstar che ti fa tenere il mondo in pugno. “Is This It” è registrato in modo intelligente, dando priorità alle vere capacità musicali della band e lasciando per un secondo da parte la qualità dell’audio. Se la cosa aveva funzionato nel 1994 per “Definitely Maybe” degli Oasis, che suonava un po’ come un demo, perchè non per gli Strokes? E infatti la cosa funziona anche qui e funzionerà sempre perchè il disco cattura un’atmosfera, un’aria di cambiamento musicale, cattura il cuore di una generazione annoiata che si rivede nei testi che narrano di scene cittadine, party, risse al pub e relazioni finite male. Nel frattempo con questo disco band come Arctic Monkeys cominciano a pensare che sarebbe meglio metter su un bel gruppo piuttosto che andare a ritirare il sussidio di disoccupazione nello Yorkshire. Attualmente “Is This It” rappresenta ancora il disco garage rock ‘must’ della decade che sta per chiudersi. Take it or leave it. (Giovanni “giov” Venditti)
E’ come se ci fosse sempre stato, eppure ci ha colti di sorpresa, facendoci subito innamorare. E’ Il suono severo della wave più gelida che torna ad accarezzare la tremolante superficie di malconce notti metropolitane. E al di là di questa superficie, una sobria disperazione, l’incanto di una silhouette amata e bramata che sfugge, New York City così anonima e grigia, così viva e comprensiva. La città (in realtà qualsiasi città ) ti accoglie e ti consola, ti parla, anche se in realtà sta tacendo mentre ti osserva, e sei tu a parlare a te stesso. Anche se in realtà La città neanche esiste, c’è solo la tua camera disordinata, il tuo letto ancora caldo e il fumo che riempie l’aria che scoppiava di sussurri, filtrava le confessioni, raccoglieva gli sguardi. Sguardi di occhi socchiusi e sospettosi, ma ancora storditi della passione. Romantico e decadente, allo stesso tempo enigmaticamente istintivo così come elegante e calcolato, minimalista ma denso, “Turn On The Bright Lights” si spinge oltre la lezione di Joy Division (il paragone più diffuso, ma anche il meno azzeccato in assoluto), Chameleons, Television e compagnia bella coniando un suono che sa di vecchio ma al contempo è innegabilmente ‘nuovo’, al di là dei limiti del derivativismo e del citazionismo. Un suono che stregherà stuoli di aspiranti musici e appassionati di musica, marchiando a fuoco gli anni 2000. (Luca “Dustman” Morello)
Tra i momenti che più hanno segnato questo decennio musicale un posto d’onore va assegnato senza esitazioni all’emergere della ‘scena canadese’. I Broken Social Scene ad aprire le danze, poi gli Stars, The Most Serene Republic e altri ancora, per finire con Feist e il suo successo planetario o quasi. Artisti che assieme alla terra di provenienza ritrovano in comune un’idea di pop (e di rock) che conquista spazi, prende aria, si distende e si allarga. ‘Orchestrale’ è l’aggettivo trovato per descrivere questa visione comune, anche se di orchestre vere e proprie poi se ne sono viste poche. Piuttosto organici allargati, e una libertà totale nell’uso dei tanti strumenti a disposizione. Gli Arcade Fire in questo quadro hanno il ruolo di protagonisti. Il loro debutto sulla lunga distanza, “Funeral”, è un fulmine a ciel sereno. Dieci canzoni che riescono a racchiudere in misura uguale l’anima aperta e neo-romantica canadese e le pulsioni post-punk che in quegli stessi anni erano emerse nel mondo musicale. Il rock della prima metà degli anni ’00 è racchiuso in questo disco. Ed è stata la metà migliore. (Matteo “matteob83” Benni)
Lontano anni luce dal precedente “OK Computer”, Thom Yorke e soci presentano nel 2000 “Kid A”, una sorta di saggio sulle possibili vie musicali della musica rock da poter percorrere nel nuovo millennio. I Radiohead riescono ad essere struggenti, sperimentali e fruibili e a creare atmosfere uniche, oniriche, che avvolgono e alienano. Un album di elettronica ipnotica che dilata e sospende all’inverosimile il concetto di tempo e spazio per penetrare nei luoghi più oscuri dell’animo umano. Forti esplosioni si alternano a lunghi silenzi, improvvisi scorci melodici camminano fianco a fianco con ritmiche mutilate e affrante. “Kid A” è un capolavoro di musica contemporanea che devasta e accarezza timidamente. (Francesco “Lazzaroblu” Bove)
La prima parte della classifica:
- THE 100 BEST ALBUMS OF DECADE [Part. 1, #100 —> #51]
Le classifiche dei migliori 20 albums del decennio divise per redattore: