Pensavo di aver toccato il fondo, in quanto ad orari di chiusura concerti con la serata di Florence + The Machine, sempre ai Magazzini Generali. Allora eravamo stati mandati tutti a casa verso le 23. Ma ovviamente mi sbagliavo.
La sera del 7 dicembre piove. Controllo l’orario d’inizio sulla pagina Myspace di Scout Niblett per non perdermi la protetta di Will Oldham, artefice, con lui splendido ospite, di un disco non facile ma molto interessante, “This Fool Can Die Now”, ormai non più recente (2007) e che sarà a breve seguito dal nuovo “The Calcination of Scout Niblett”. Orario indicato 20.00 in punto, ad aprire la serata del concerto dei Black Heart Procession ai Magazzini Generali, locale/discoteca in quel di Milano. Ok, sarà per dire, visto che aprono i cancelli alle 19.30 e dovranno per forza dare un po’ di tempo a tutti per arrivare, cascando la serata proprio nel ponte di s.Ambrogio, che per i milanesi rimane un giorno di festa consacrato allo shopping natalizio, con o senza O Bei O Bei. Ma memore dell’ultima esperienza nel locale non voglio rischiare, ci tengo alla ‘giovane’ cantante inglese e quindi alle 20.10 sono già davanti all’ingresso.
Stento a crederci, sono ancora alla cassa e già sento arrivare dall’interno la voce inconfondibile di Emma Louise Niblett. Perfetto! Incredibile!
I 45 minuti che la cantante ci ha regalato, in perfetta solitudine alla chitarra elettrica, con una breve esibizione alla batteria, hanno dimostrato la classe e la particolarità della sua proposta sonora. Canzoni che sembrano bozzetti, piccole perle ai limiti della sperimentazione vocale, sporcate dalla distorsione della chitarra, ora pizzicata, ora suonata come uno strumento a tastiera, ora lacerata e strisciata per tirar fuori suoni e rumori che arrancano dietro ad una voce stupenda, capace di impennate improvvise di grande espressività e lirismo. Concede poco o nulla al pubblico, ed altrettanto ad una orecchiabilità che, se giungesse anche in misura minima, potrebbe portare il giusto riconoscimento a questa sconosciuta chanteuse, accostabile ad una P.J.Harvey della prima ora, spigolosa e inafferrabile. Completamente fuori da logiche di mercato e di promozione al punto da non inserire in scaletta nemmeno la sua canzone più bella e conosciuta, quella “Kiss” che l’ha vista duettare con Will Oldham nel suo ultimo disco (…correte a vedervi l’ottimo video, se già non l’avete fatto).
Alle 20.45 Scout Niblett saluta il pubblico e lascia il palco per i tempi tecnici di una veloce messa a punto della strumentazione dei Black Heart Procession. Non c’è staff, sono loro stessi a salire e controllare velocemente cavi e volumi, come se, in dodici anni di carriera, la gavetta non fosse ancora finita e il successo , anche commerciale, fosse stato solo sfiorato, a dispetto di dischi notevoli e canzone stupende che avrebbero sicuramente meritato un riconoscimento maggiore.
Alle 21 in punto, e non è un eufemismo, Pall Jenkins e Tobias Nathaniel, i due membri originari, assieme a Matt Resovich, con loro dal 2002, iniziano le danze. è subito un tuffo nel passato, con un pezzo dal secondo disco, “Outside The Glass”, una partenza che si riallaccia alle origini della band, come fa capire anche il loro ultimo lavoro, che già nel titolo, “Six”, ritorna a quella numerazione abbandonata per i titoli diversi e i suoni più ricchi di “Amore del tropico” e “Spell”, belli ma in parte un ammorbidimento ed un allontanamento dalle origini maledette e cupe dei primi dischi, dove ‘murder ballads’ e atmosfere tese e disperate erano proposte con suoni scarni e in massima parte acustici.
La scaletta del concerto privilegia ovviamente l’ultimo disco, tralasciando però il singolo “Witching Stone” per concentrarsi sugli episodi più introspettivi e interessanti, come la stupenda “Drugs”, la cupa “Heaven And Hell”, o la tesa e acida “Suicide”, proposta nel bis.
Ad intercalare i brani più nuovi vengono proposti ampi ripescaggi dai primi due album, tra i quali spicca la bellissima “Blue Tears”, una delle preferite a giudicare dall’entusiasmo del pubblico sin dalle prime note.
Sul palco, assieme al trio storico, i due nuovi elementi alla batteria ed al basso si sono dimostrati capaci di inserirsi con decisione nel suono della band. Forse avrei preferito una batteria meno ossessiva, un vero martello a tratti invadente e spesso più regolare di un metronomo. Ma il palco comunque è tutto loro, di Pall Jenkins, visibilmente appesantito col passare degli anni, ma ancora sporco e maledetto, degno interprete di storie di umana disperazione, e il suo fidato compare, Tobias Nathaniel, che percorre le tastiere del Roland ricamando melodie senza tempo e senza redenzione. Altrettanto essenziale al quadro sonoro l’apporto di Matt Resovich, al violino ed alle percussioni, sempre pronto ad inserire sonorità di disturbo e di inquietudine.
Ma la magia dura poco, alle 22.00 i primi saluti, una breve pausa dietro le quinte e poi di nuovo sul palco per i tre bis, conclusi con altri saluti, consigli per gli acquisti e ringraziamenti per un pubblico che è rimasto fedele ed affezionato negli anni, sostenendoli in momenti difficili e senza dimenticarli nonostante i lunghi periodi lontani dalle scene.
Al pubblico non è lasciata nessuna possibilità . Alle 22.15, dopo l’ultimo saluto, le luci si accendono e la musica trasmessa dal mixer si diffonde, senza lasciare alcun dubbio che la serata in compagnia dei Black Heart Procession sia finita.
Resto davvero basito, e temo che non sia per l’ultima volta.