Sono convinto che esistano pochi momenti in grado di portare tanta gioia quanto quello dell’arrivo di un figlio. è anche vero, però, che questa esperienza porta con sè, prima, durante e dopo, delle trasformazioni, nella nostra vita e nei rapporti con tutti quelli che ci stanno attorno. E questo, con altrettanta sicurezza, genera ansie e pensieri, dubbi e ripensamenti. Mille, anzi infiniti.
Stop, non preoccupatevi, non avete sbagliato sito, state sempre leggendo Indie For Bunnies, e anche se è vero e noto che i conigli figliano che è un piacere, questa è comunque una recensione musicale! Ed io vi sto appunto parlando dell’ultima fatica del duo americano The Dutchess & The Duke, la seconda prova sulla lunga distanza, ad un anno dal precedente e ottimo debutto, l’acclamato, almeno dalla critica che conta, She’s The Dutchess, I’m The Duke. Nelle dieci tracce di quel disco, le influenze di Jesse Lortz e Kimberly Morrison erano più che evidenti, l’amore per i sixties, per il signor Zimmerman, il signor Davies e i ‘fratellini’ Jagger & Richards, riempiva le canzoni di citazioni e riferimenti, rileggendo il tutto in chiave acustica, con una strumentazione giustamente ridotta all’osso, ma con una profondità  di contenuti ed un trasporto nelle interpretazioni che erano il vero valore aggiunto dell’operazione.

Ora siamo arrivati alla difficile seconda prova. E difficile lo è per diversi motivi. Alcuni connaturati al fatto stesso di non doversi ripetere, per non cadere già  in cliches e stereotipi che possano chiudere subito le porte di favori e plausi che si erano aperte un anno fa. D’altra parte, se si è bravi davvero, questo è un falso problema, basta avere in testa idee chiare su cosa e come raccontare le proprie storie, per esprimere idee ed esperienze che già  in precedenza non difettavano di motivi di interesse. Ma a volte le difficoltà  sono interne, nascono dalla propria vita, perchè le situazioni cambiano. E noi, ovviamente, con loro.
E così si dà  appunto il caso che il Duca e la Duchessa siano diventati genitori, con qualche effetto sulla loro arte. La musica, in primis. La matrice anni ’60 è rimasta, come risulta evidente dall’incedere ‘ballads’ di buona parte dei pezzi, dove la chitarra rimane la guida e il tutore attorno al quale i brani crescono e si evolvono. Ma le atmosfere dei Rolling Stones del periodo mersey-beat, del Dylan post-Band, e dei Kinks cresciuti ed evoluti hanno preso il posto del ruspante folk ‘vaudevilliano’ del precedente disco, arricchendo i suoni con nuovi strumenti, come organo, piano e violini, rendendolo più maturo e ricco, interessante e vario. La struttura delle canzoni è ora al centro di operazioni di produzione che giocano con attenzione e malizia con tutte quelle citazioni che prima erano decisamente più dirette e spontanee.

Trattato a parte, come elemento a sè, l’approccio sonoro rimane derivativo, certo, ma è sbagliato considerarlo separatamente dalle parti vocali e dai testi che cantano. Le voci sono diventate molto più curate nell’intreccio, con una capacità  di creare pathos e sensazioni ben maggiore che in precedenza. Come appare nelle due tracce dove, per la prima volta, la capacità  canora di Kimberly non è più limitata alla voce di risposta o di controcanto, ma diventa protagonista, “Sunset/Sunrise” e “When You Leave My Arms”. E si dà  il caso che queste siano due delle tracce più intense e più belle dell’album: I know where you go, I know what you’re after…when you leave my arms canta Morrison, dichiarando apertamente che la giunta maternità  non ha disperso le nebbie della vita. Anzi, si direbbe, perchè il tema dominante del disco è quello dell’abbandono e della perdita, del tradimento e della disillusione, come anche Lortz canta in “Scorpio” o in “Let It Die”, intrecciando versi tristi e cupi con una musica inspiegabilmente allegra e spensierata. Dissonanze che ritornano anche in altri episodi, con intrecci tra paure e speranze dichiarate a partire dal titolo del disco, “Sunset/Sunrise”, scegliendo però una linea temporale che lascia possibile intravvedere un cambiamento positivo.
Alla fine, come tutte le riflessioni che nascono dai temi delle canzoni e che sembrano ancora una volta un tentativo di esorcizzare timori e ansie, l’ultimo brano “The River”, bellissima ballata che fa incontrare Nick Cave e Johnny Cash, sembra racchiudere, nella considerazione di un fluire degli eventi che si ripetono incessantemente, una ritrovata pacificazione. O forse un’accettazione dell’ineluttabilità  della vicenda umana.

Welcome to the world, baby Oscar, come dice una dedica sul disco, ti ritroveremo sicuramente nel prossimo capitolo.

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Sunset / Sunrise
[ Hardly Art – 2009 ]
Similar Artist: Bob Dylan, Rolling Stones, Kinks
Rating:
1. Hands
2. Scorpio
3. Let it Die
4. Living This Life
5. Sunrise / Sunset
6. Never Had a Chance
7. I Don’t Feel Anything
8. New Shadow
9. When You Leave My Arms
10. The River