Dov’è il segreto di “500 Days of Summer”?
Forse è nella catulliana dedica iniziale: amare tanto una persona perduta al punto da farci un film sopra, e allo stesso tempo darle della stronza davanti agli spettatori di tutto il mondo, seduti in un festival, in una sala o davanti al proprio computer (in molti hanno sentito tanto parlare di questo film che alla fine – stanchi di aspettare un’incerta distribuzione italiana – se lo sono scaricato…)
E visto che il protagonista ha sempre scritto a tavolino – nella solitudine della sua stanza da teen-ager in cui ascolta gli Smiths – quella che doveva essere la sua storia d’amore, ed ha imparato ad innamorarsi o a soffrire attraverso Il laureato, o la musica pop, per svelare il trucco è giusto persino chiamare in causa Bruce Springsteen (del resto, è il nome che Zooey Deschanel ha dato al suo cane).
Now these memories come back to haunt me, they haunt me like a curse, it’s a dream, a lie, if they don’t come true…
Eppure, non è nemmeno nella doppia natura dei ricordi che sta il segreto del film: in quella immagine ideale della ragazza che sorride, nel modo in cui ci si innamora dei dettagli – il modo che ha di bagnarsi le labbra prima di parlare, la piccola voglia sopra il seno – che è allo stesso tempo una croce e una delizia, un piacere ed una condanna al dolore, almeno per come la vive il protagonista, abbandonato in un appartamento di Los Angeles con le sue illusioni andate in fumo (lo straordinario film-proiezione di quella che sarebbe potuta essere la loro vita domestica, finta come i set di Ikea).
Sono momenti riusciti, singolarmente freschi e pertinenti, ma non originali, almeno per chi ha ben presente l’esempio di “The Eternal Sunshine of a Spotless Mind” di Michel Gondry: semmai, colpisce il modo proustiano in cui Gordon-Levitt si mette a descrivere ogni singolo momento passato con la sua amata/odiata Summer, sempre investita di uno sguardo che sin dal primo giorno del suo diario la segue in ufficio, che non è mai neutro, ma è sempre appassionato.
Marc Webb sa che per rendere credibile la sua commedia sentimentale, per farla emergere nell’oceano di prodotti analoghi, e tutti ugualmente autobiografici, c’era bisogno di una cosa semplice eppure irraggiungibile: della verità .
La messa in scena alterna infatti lo spazio mentale del protagonista – l’immaginazione di un amore che si è sempre fatto nella sua testa – con il quotidiano in cui le cose vanno a strappi, complicate dalla vita, che come dice la disillusa protagonista alla fine arriva sempre a chiedere il conto.
A volte si sente suonare il campanello di notte e si apre la porta, e si trova chi si vorrebbe trovare proprio fuori sul pianerottolo, mentre fuori piove.
Spesso invece no, e Webb sa come rendere questo scarto in modo esemplare: è tanto consapevole che è quella la chiave del successo del suo film, da ricorrere spesso allo split-screen, usato con insistenza fino ad una sequenza magistrale in cui la proiezione mentale di un appuntamento, l’aspettativa di un appuntamento che si vorrebbe romantico, viene travolta dall’impatto con la realtà , con le complicazioni legate agli eventi da un vincolo di necessità .
Certo, il finale di “500 Days of Summer” reclama vendetta, per quanto è posticcio: si scontra con i propositi alla nouvelle vague e con il coraggio visivo che animano tutta la narrazione, con l’intraprendenza del film indipendente che vorrebbe rompere con la tradizione hollywoodiana.
Nella vita di tutti i giorni si resta appesi su una panchina, con uno sguardo impotente, frustrato, pieno di desiderio e di rancore come quello di Gordon-Levitt, pieno della consapevolezza di aver insegnato a capire l’amore a qualcuno che lo vivrà con un’altra persona, e che quello sarà anche l’ultimo con cui lo guarderemo.
Eppure, forse è per questo che continuiamo ad andare al cinema, no?
Come diceva Hitchcock, è l’unico posto in cui non esistono le parti noiose, i giorni inutili, e la sofferenza del dover dimenticare dura il tempo di una dissolvenza.