Le classifiche dei migliori 10 albums del 2009 divise per redattore:
- TOP 10 ALBUM 2009 REDATTORI INDIEFORBUNNIES
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#50) Atlas Sound Logos [Kranky] Cantante e frontman dei Deerhunter, Bradford Cox si serve del nome Atlas Sound per il suo progetto solista. Un dream pop fluttuante, con parti acustiche che talvolta si fondono e sciolgono in ambient e shoegaze, elettronico e vagamente noise. Ad impreziosire questo lavoro raffinato ed elegante ci sono eccellenticollaborazioni con Panda Bear (Animal Collective) e Laetitia Sadier (Stereolab). |
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#49) Madlib The Beat Konducta Vol. 5-6: A Tribute To”… [Stones Throw] In tributo al genio ed amico J.Dila Madlib accantona “‘discutibili’ influenze orientali, riappropriandosi a suo modo di quel background sonoro che lo ha incoronato tra i migliori producer in circolazione. Dalla sua sterminata collezione di dischi ecco nuovamente saltare fuori vecchi vinili di soul, funky, hip-hop, vivisezionati, filtrati, campionati con l’obiettivo di realizzare 41 tracce strumentali. Siamo di fronte al solito travolgente collage sonoro immerso nella sconfinata cultura musicale nera, un’alchimia di ritmi old-school e suoni del nostro tempo amalgamati ad arte dal migliore “‘artigiano di beats’ sulla piazza. Come una delle tante voce campionate nel disco avrà modo di dire: questo non è semplicemente un tributo ad un amico, questo è un tributo alla musica che lo mantiene in vita. |
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#48) The Rest Everyone All At Once [self-released] Pochissime volte ho scritto la parola ‘capolavoro’, soprattutto se si stava parlando di una band al debutto. Eppure non ci ho pensato due volte nel caso di “Everyone All At Once” dei Rest. Una band che suona come un’intera sinfonia, un plotone di musicisti, armato solo di strumenti e idee convincenti. Spunti lirici, classici, fulminee accelerazioni rock che terminano la loro corsa nella nebbia e nell’atmosfera poco tangibile di fantasmi post rock, dove solo la voce di Adam sembra poter illuminare. Questo è l’album che in un lampo mi ha fatto sembrare tutto il lavoro degli Arcade Fire nient’altro che una prova musicale da dilettanti. Ribadisco senza il minimo dubbio. Capolavoro. |
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#47) Ustad Ali Ahmad Hussain Khan & Party Serenity [Felmay/Egea] Tre lunghi raga rispettivamente di 21, 33 e 10 minuti ciascuno, guidati dalla voce commovente, ipnotica, dello Shenai: antico strumento a fiato della famiglia dell’oboe, capace di infondere pace e Serenità , come suggerisce il titolo. Quindi abbandonate miserie ed affanni e lasciatevi cullare nell’universo senza fine dal profeta Ustad e dalla sua schiera di cherubini. Un’esperienza mistica assolutamente fuori dal comune. |
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#46) Mastodon Crack The Skye [Relapse] I Mastodon sanno sempre rinnovarsi e lo hanno dimostrato fin dall’inizio. Non si credeva però che potessero fare un gioiellino del genere, trascendendo tutte le frontiere del metal, unendo lo sludge al progressive e l’heavy all’hard rock con questa saggezza. L’inventiva di questi ragazzi non finisce mai, e ci vuole poco a rendersene conto (imperdibili “The Czar” e “The Last Baron”). |
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#45) The Flaming Lips Embryonic [Relapse] Per certi versi risulta inevitabile parlare di ‘ritorno al passato’, ai tempi in cui i Flaming Lips se ne uscivano fuori con idee folli come “Zaireeka”. Forse però per “Embryonic” la cosa migliore è dire “‘ritorno d’identità ‘: Wayne Coyne e compagni restano quella banda di fuori di testa che ricordavamo e sono ancora più che capaci di maneggiare la materia psichedelica e creare percorsi sonori ipnotici e intricati. Pubblicare un’opera come “Embryonic” oggi non è saggio. A leggere questa frase, è certo, i Flaming Lips sorriderebbero beffardi. |
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#44) Hatcham Social You Dig The Tunnel, I’ll Hide The Soil [Fierce Panda] Gli Hatcham Social spaccano! Davvero. Senza mai suonare scontati, derivativi o plagiari. Nel loro ruolo di umili interpreti delle radici anglosassoni si trovano benissimo, custodi e prosecutori di una tradizione Pop che passa per chitarre stridenti e architetture vocali ultracatchy. Certe vibrazioni ti si stampano a fuoco nel cervello, polverizzando settimane di delusioni continue e regalando disimpegno. Sono organismi vivi e pulsanti nati per accarezzarti la testa. |
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#43) Patrick Wolf The Bachelor [Bloody Chamber] Il violino, lo strumento col quale Patrick ha sempre avuto un rapporto privilegiato è l’assoluto protagonista, talvolta discreto e compiacente, altre volte sontuoso e prepotente, di un album che rappresenta la summa di tutto ciò che il Nostro ha composto sino ad oggi. La varietà degli approcci e le atmosfere cangianti nulla lasciano alla noia, nonostante la grande abbondanza di soluzioni adoperate. …Patrick Wolf continua a somigliare sempre più solo a se stesso. Difficile immaginare un prossimo capitolo migliore di questo, ma intimamente siamo convinti che sarà possibile. |
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#42) Mos Def The Ecstatic [Downtown] Mos batte un beat. Dopo dieci anni dagli esordi fantastici, intervallati dalla buonissima (è bravo anche in quello!) carriera d’attore, Mos Def torna all’hip-hop. Il flow è perfetto, i testi sono intelligenti e sensibili, la musica è fedele alle tradizioni, contaminata episodicamente dal jazz, dal funk, dall’r’n’b e dal rock. Gangsta cosa? Questa è Classe! |
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#41) Yeah Yeah Yeahs It’s A Blitz [Interscope] Il coraggio di cambiare a volte paga. Il garage rock si sa, può essere ripetitivo e pure Karen O e soci sembrano cercare nuovi orizzonti. Il sound di questo disco scontenta solo gli “erano_meglio_primisti”. Ballabile, potente, prorompente entra di voi sempre più, ad ogni giro di boa. Più dei New Order, dei (primi) Killers o dei MGMT, il disco è cantabile e ballabile. Piace davvero il sorprendente nuovo corso della band Neyorkese. Poi la voce di Karen O andrebbe bene anche cantasse, come poi ha fatto, colonne sonore di film per bambini. IMPENSABILE. |
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#40) Russian Circles Geneve [Suicide Squeeze] Difficili da catalogare, in costante ascesa, i Russian Circles sono sicuramente al loro album migliore. Che il pubblico se ne sia accorto (o se ne accorgerà ) o meno, “Geneva” spicca nel 2009 come uno degli punti chiave per tastare il polso alle correnti più periferiche e innovative che da qualche anno si sono diramate dal post-rock, metal e prog. Dotati di un innata solennità compositiva, il suonato dei Russian Circles raggiunge l’autorevole compattezza dei migliori e più psichedelici Tool. Il controllo delle linee ritmiche tra chitarra, basso e batteria sono la virtù che separa oggi questa formazione americana da molte altri chiacchieratissimi gruppi. Dave Turncrantz rimane a mio avviso il batterista più interessante e originale di questo decennio. |
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#39) Tinariwen Imidiwan: Companions [Independiente] Dopo l’eccellente, indescrivibile “Aman Iman” (Water is Life) di due anni orsono, tornano gli uomini blu, i predicatori del deserto armati di blues, psichedelia e cammelli. Un disco commovente, un appello accorato ai compagni africani dispersi per il Continente Nero e per il mondo ad unirsi e a non odiarsi. Il Panafricanismo per fortuna non è morto, ma neanche la grande musica. Per fortuna. |
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#38) Ben Harper And Relentless7 White Lies For Dark Times [EMI] Avevo lasciato Ben Harper qualche disco indietro, mi aveva un po’ stancata una scrittura che sembrava ormai fatta col pilota automatico. Questo è un favoloso ritorno al rock-blues più ruvido e profondo. E’ come riscoprirlo nuovamente attraverso un album dall’impostazione classica che preme il piede sull’acceleratore incantando con una manciata di canzoni energiche, affilate ed incisive. Bentornato Ben! |
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#37) AA. VV. 5: Five Years Of Hyperdub [Hyperdub] Il dubstep è un’à ncora di salvezza: l’atmosfera fumosa e cinematica, tecnoide e fottutamente africana è una spiaggia rinfrescante dopo il naufragio collettivo nella minimal più gelida (che non smette comunque di riservare rare sorprese). E la Hyperdub è la label da cui tutto ha avuto origine (anche se non si può non citare, anche solo di sfuggita, la sempre attenta e fervida Planet Mu), che ora stila un breve ma terribilmente grandioso sommario del suo contagio: le radiazioni già liberate e le prossime di cui c’innamoreremo, di cui ci stiamo già innamorando. |
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#36) Phoenix Wolfgang Amadeus Phoenix [V2] “Lisztomania” o “1901”? Si potrebbe trovare un compromesso e dire “Lisztomania” fino all’estate e “1901” per i mesi successivi. E “Rome”, “Girlfiend”, “Armistice” e tutte le altre? Il 2009 più solare e scanzonato è racchiuso in questo disco. Semplice e intelligente, senza enormi pretese, ma infallibile nel fare il proprio lavoro. |
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#35) Wild Beasts Two Dancers [Domino] Due voci maschili, testi letterari, barocchismi pop: In quanto a raffinatezza creativa, “Two Dancers” è forse il disco dell’anno. Ormai questi giri froci newyorkesi sfornano band di qualità superiore ad ogni piè sospinto. E noi, che siamo menti illuminate e di ampie vedute, gliene siamo profondamente grati. |
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#34) Japandroids Post-Nothing [Unfamiliar] Sulla scia lasciata dai No Age si presentano due canadesi che semplicemente pestano e ripestano su chitarra e batteria, ci riescono esageratamente bene. Secchiate e secchiate di adrenalina scombussolano chi li ascolta, non rimane altro che saltare pogare sputare e rimanere collassati a terra in una pozza di sudore. |
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#33) And You Will Know Us By The Trail Of Dead Century Of Self [Superball] L’anello di congiunzione tra il ‘barocco’ di “Worlds Apart” e “So Divided” e i vecchi TOD. Un disco sottovalutato quanto epico, ma nel senso più buono del termine. Dalla furia di “Ascending” alla ballatona “Picture of An Only Son” all’acustica “Luna Park”. Da ascoltare tutto di un fiato, senza stare ad ascoltare chi diceva che erano meglio prima. |
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#32) Franz Ferdinand Tonight: Franz Ferdinand [Domino] Gli arrangiamenti sono abbastanza ricercati, l’elettronica assume una certa importanza negli impasti sonori, il basso pulsa più che mai quasi come volesse portare nel suo trip ritmico tutti gli altri strumenti, mentre lo chef Kapranos si è messo a scavare nella sua ugola per stanare nuovi stili e sfumature. Gli Scozzesi sanno ancora come destare l’attenzione e farsi notare nel marasma delle uscite discografiche”…e sono ancora in grado offrire nello stesso tempo un prodotto di qualità . Non v’è dubbio. |
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#31) Edda Semper Biot [Niegazowana] Dodici, meravigliosi intensi episodi acustici, arricchiti qua e là dal gusto e dalla precisione del polistrumentista Andrea Rabuffetti e di altri ottimi musicisti. Uno su tutti, Mauro Pagani ospitato al violino nel pezzo di apertura, “Io E Te”, canzone perfetta per introdurci in questo nuovo percorso intrapreso dall’artista milanese. Un percorso fatto di canzoni toccanti come “Scamarcio”, “L’innamorato”, “Snigdelina”, la stessa title ““ track, che dopo svariati ascolti entrano nel cuore, nella pelle. Le parole sono forti, vere, crude, alle volte ti commuovono fino alle lacrime, e in altri momenti possono addirittura strappare un’ irrazionale sorriso. Emozioni che solo i più grandi sanno trasmettere. |
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#30) King Midas Sound Waiting For You [Hyperdub] Un disco dubstep che ha ben poco di dubstep, un disco che sfugge a chiunque voglia provare ad inserirlo in una categoria ben precisa. Per definirlo qualcuno riesumerà la parola trip-hop, qualcun altro userà la parola nu-soul, qualcuno oserà spararla grossa e dirà dub, qualcuno non ci proverà nemmeno ma la sostanza è che “Waiting For You” di King Midas Sound è un disco che riesce contemporaneamente ad essere un passo avanti e un passo indietro rispetto alla concorrenza. Anzi, è un disco che riesce ad essere contemporaneamente un passo avanti ed un passo indietro rispetto alla concorrenza. |
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#29) Great Lake Swimmers Lost Channels [Nettwerk] In questi anni ho potuto ammirare la crescita costante dei Great Lake Swimmers, dai languidi esordi fino a quest’ultimo capolavoro. Senza esitazione “Lost Channels2 andrebbe inserito non solo tra i più bei dischi del 2009, ma anche tra gli album imprescindibili del decennio che sta volgendo al termine. Come bon bon colorati pescati dal sacchetto le 12 canzoni del disco addolciscono il palato fine dell’ascoltatore, che estasiato non potrà non abbandonarsi alle melodie tracciate dai quattro canadesi. Un folk-rock di razza, che da Neil Young arriva fino ai Midlake passando incredibilmente anche per gli Smiths, per poi sprofondare nella voce malinconica ed accorata di Dekker. |
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#28) Silversun Pickups Swoon [Dangerbird] Pop e distorsioni. Malinconia e distorsioni. Brian Aubert e soci tornano con una prova che si rivela all’altezza del loro brillante esordio, senza stravolgere la formula fatta di mormorii e impennate shoegaze. Peccato che da noi non si possa ascoltarli dal vivo, a meno di non volersi sorbire i Placebo, a cui hanno fatto da supporter “… in attesa di un futuro capolavoro generazionale, questo “”‘Swoon” va benissimo. |
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#27) The Dead Weather Horehound [WEA] Non avrei mai creduto che un supergruppo potesse catturare l’attenzione al punto da entrare nella top ten anzi five dell’anno. Eppure a Jack White ogni ciambella sembra riuscire col buco. Certo se prendi Alison “VV” Mosshart dei Kills e qualcuno dei Queens Of The Stone Age e dei Raconteurs è difficile sbagliare. E’ un po’ come dare un basso ai White Stripes o ai Kills ed arricchire il sound con un pizzico di QOTSA: una ricetta che non può che funzionare! Ed il disco piace davvero tanto. L’amico Jack non sbaglia un colpo. CENTRABILE |
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#26) Moderat Moderat [BPitch Control] La fusione in questione ha come luogo natale Berlino, e come elementi protagonisti i due elettro-gruppi/dj’s teutonici Modeselektor e Apparat. Quello che ne viene fuori è un lavoro straordinariamente equilibrato che si regge su battiti techno, a volte contagiati dall’ idm, e che si fa avvolgere da stranianti parti melodiche cantate e suonate. Viene voglia di muoversi da subito, sopratutto nel live, suo habitat naturale. |
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#25) Zu Carboniferous [Ipacac] L’orgoglio di Roma, o meglio di Ostia, c’ha stesi secchi con un disco compatto, più forma canzone (per quanto non abbia senso riferito agli Zu) che in passato e con ospitate di Patton e King Buzzo tra gli altri. L’intro con “Ostia” (appunto) vale l’acquisto, o quantomeno l’ascolto. E la compattezza del resto vi convincerà a non pentirvene. |
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#24) Soap & Skin Lovetune For Vacuum [Play It Again Sam] Diciannovenne austriaca, questo il suo disco d’esordio. La sua bellissima voce accompagnata dalle note di uno scuro pianoforte ci racconta di come è possibile fare del goth/dark in modo tanto sublime. Un’eleganza innata per questo piccolo genio che sa essere tanto fluttuante ed elegante quanto straziante e crudele. Ma sempre, immensamente dolce. |
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#23) Brunori SAS Vol.1 [Pippola] Baustelle goes Rino Gaetano e Dario Brunori è il vero grande interprete del nuovo cantautorato italiano. Perchè lui è uno ordinario e la sua non è una vita speciale. Ed è per questo che la vuole cantare. Avanti così, da Cosenza con furore. |
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#22) Caetano Veloso Zii e Zie [Universal] Joao Gilberto che spiega la ‘batida’ a Thom Yorke in un bar di Ipanema, Tom Jobim che invita a cena gli Arctic Monkeys, gli Yo La Tengo che prendono in giro Nino Rota. Paradossale, vero? Il vero album indie-rock dell’anno 2009! |
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#21) Pearl Jam Backspacer [Universal] Me ne sbatto di quello che potrà dire il fan(che cosa nefasta i fans) della prima ora. Questo era esattamente quello che cercavo nel nuovo disco dei Pearl Jam: non certo un capolavoro come “Ten” o “No Code”, giusto per citarne due, ma un bel lavoro di semplice ed affilato rock’n’roll. E Vedder e soci non sembravano così in forma da moltissimo tempo. “Backspacer” ha bisogno semplicemente di essere infilato nel lettore ed ascoltato a volume possibilmente smodato. Di tutte le pippe sul “‘come’, sul “‘quando’ e “‘perchè’ ve ne dimenticherete in pochi istanti. In caso contrario la colpa sarà dei vostri inutili preconcetti. |
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#20) Barzin Notes To An Absent Lover [Monotreme] Lovers are strangers, and we are too. Non so se mi spiego. Sensibilità , malinconia, arrangiamenti, scrittura troppo superiore alla media. Questo è cantautorato US destinato a restare. Emozioni in musica, come nessun’ altro in questo 2009. |
#19) Dente L’Amore Non E’ Bello [Ghost] Abbandonate le sghembe atmosfere da cameretta dei dischi precedenti, Giuseppe Peveri incide un album di musica leggera italiana, fatto con garbo ed eleganza. Giochi di parole, qualche ruffianeria, il primo sole di primavera che riscalda screpolate finestre di legno. Bruno Lauzi, Alan Sorrenti e Sergio Endrigo non sono mai stati così vicini come nelle filastrocche del cantastorie fidentino. |
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#18) Mono Hymn To The Immortal Wind [Temporary Residence/Human Highway] Prosegue il viaggio siderale della formazione giapponese, “Hymn To The Immortal Wind” è il lavoro più intimista fin qui proposto dai Mono. Ancora gli indiscussi maestri alchimisti del magma sonico, ne sa qualcosa che ha avuto la fortuna di vederli dal vivo, celebrano questo loro primo decennio di attività con un album che cavalcando i crescendo sinfonici tanto cari al post-rock, intraprende la strada inversa e si lascia cullare sospeso nella quiete centrale dell’occhio del ciclone. Produce Steve Albini. |
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#17) Lucero 1372 Overton Park [Republic] E alla fine arrivò Ben Nichols con i suoi Lucero e sbaragliò la concorrenza. Mi ci è voluto poco per capire che questo sarebbe stato il mio disco dell’anno e non solo, credo che sarà uno di quegli album che mi porterò per tanto tempo ancora. Il soutern-rock metropolitano di queste dodici tracce non ha una sbavatura che sia una, è solo energia, poesia e letteratura rock’n’roll. “1372 Overton Park” non ha la pretesa di inventarsi alcunchè, eppure riesce ad entrarti nel sangue e una volta in circolo è impossibile scrollarselo da dosso. Una spanna sopra qualsiasi disco uscito nel 2009. Un nuovo probabile classico per il sottoscritto. |
#16) Fanfarlo Reservoir [self-released] Una banda di inglesi che unisce lo sguardo folk-orchestrale applicato al pop degli Arcade Fire all’immancabile e diretta verve britpop. Ne esce fuori l’esordio dell’anno: una raccolta di canzoni impeccabili, trascinanti. Capaci di accompagnare ogni stagione senza spegnersi, senza appoggiarsi ad una singola atmosfera, ad un unico stato d’animo. |
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#15) Vic Chesnutt At The Cut [Constellation] Questo è il terzo anno consecutivo in cui il buon Vic ci regala un disco. L’anno scorso si era fatto accompagnare dagli Elf Power nel buon “Dark Developments”, in cui veniva fuori il suo lato più frizzante e rockettaro, se proprio così si vuol definirlo. Un buon lavoro, certo, ma nulla a che vedere con quella che fu l’uscita migliore del 2007 e tra le più significative del nuovo millennio: “North Star Deserter”. Lì, il cantautore era affiancato dagli A Silver Mt Zion e da Guy Picciotto dei Fugazi e il risultato fu un disco straordinario, da ascoltare e riascoltare nelle più tetre e piovose giornate invernali, ma non solo. Un disco per il quale si può scomodare anche la parola capolavoro. In “At The Cut” vige il detto ‘squadra che vince, non si cambia’, e infatti i collaboratori del cantautore georgiano sono gli stessi che figuravano in “North Star Deserter”. Forse qui non abbiamo un ritornello da ricantare a squarciagola come quello di “You Are Never Alone” o una composizione gigantesca come “Splendid”, ma il nuovo lavoro del cantautore di Athens viaggia sempre su ottimi binari, e la sua ispirazione proprio non vuol saperne di deragliare. |
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#14) Califone All My Friends Are Funeral Singers [Dead Oceans] Canzoni stupende, profonde, sospese in meravigliose armonie su cui canta la voce malinconica di quel genio incompreso che è Tim Rutili, che già con i Red Red Meat e con i precedenti lavori della sua attuale band ci aveva regalato perle di tale bellezza. Qui, si ripropongono con maestria il country, il blues, il folk, destrutturati e intrisi di una personalità e di una originalità unica nell’attuale scena musicale. Stavolta si spera nel buon gusto dei musicofili, che un disco di tal portata non venga accantonato o sottovalutato. |
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#13) Kasabian West Rider Pauper Lunatic Asylum [Red Ink/Red Int] Questo disco mi manda ai matti. Voglio ringraziare Sergio Pizzorno per non aver sbagliato niente. Spunti e idee ai livelli del primo disco e scusate se è poco. Canzoni che potrebbero essere uscite dai dischi dei Primal Scream. Ho sempre pensato che questo sarebbe stato il mio disco dell’anno, ma avevo dimenticato di fare i conti con lui. |
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#12) The Big Pink A Brief History Of Love [4ad] Shoegazer. Un vortice di distorsioni, voci tranquille in stile Jesus And Mary Chain o Black Rebel Motorcycle Club e sonorità oscure. Loop circolari, riverberi ed echi che da lontano avvolgono e ti trascinano dentro a questo nero. La band ha recentemente aperto i concerti dei Muse. Il disco non è niente di nuovo e suona molto, in alcuni momenti, come il debut degli Early Years ma è sicuramente da segnalare perchè ha una bella identità e tra tutte undici è davvero difficile trovare una canzone debole. In molti giurano che dal vivo siano una delusione. Sarà , ma questa è la classifica dei dischi in studio di fine anno e un posto di tutto rispetto se lo meritano. |
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#11) Mulatu Astatkè & The Heliocentrics Inspiration Information 3 [Strut] L’ho già detto e lo ripeto: Dio benedica la Strut, perchè ci dà l’opportunità di ascoltare musica possente, vibrante e caledoscopica. Come questo disco, felice incontro di uno dei più grandi geni della musica contemporanea, il vibrafonista Mulatu Astatkè ed uno degli ensemble avant funk più coraggioso ed interessante di questi anni: Gli Heliocentrics. Il risultato è da lasciare a bocca aperta. Uno dei più grandi capolavori di questi anni 2000 ed oltre: visioni di Sun Ra, ipnosi iperdub, scudisciate funk pregne di psichedelia che vengono da lontano. Dall’Etiopia, per l’esattezza. Wow. |
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#10) Doves Kingdom Of Rust [Heavenly] Ammetto di avere sempre avuto un debole per la band dei fratelli Williams, però oggettivamente questo mi sembra un lavoro all’altezza degli esordi, anche se diverso. All’approccio notturno e psichedelico qui si preferisce il rumore, la ballabilità ed un suono pieno ed aggressivo. A qualcuno potrà sembrare un po’ eccessivo, ma chi li ha apprezzati da sempre, non può fare altro che applaudire ad un lavoro bellissimo, cosa ormai abbastanza rara in terra d’albione, in cui l’hype non è più direttamente proporzionale alla qualità artistica. |
#9) Fever Ray Fever Ray [Rabid] Karin Dreijer Andersson fa sul serio altrimenti sarebbe il migliore side project della storia. E sfodera un disco da incorniciare, che ti stritola di claustrofobia tra pareti di cemento armato (“Concrete Walls”) e ti libera nella tundra sterminata (“Keep The Streets Ampty For Me”). Come un enorme campo magnetico unisce i poli opposti, è solare e crepuscolare, è notturno e mattiniero. Lo spazio è riempito dalla voce rotonda e robusta dell’artista svedese, che attira a se come pecorelle smarrite un numero vasto di effetti sonori ben studiati e ingegnerizzati. La hit dell’anno è “When I Grow Up”. MAGNETICO. |
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#8) The Pains Of Being Pure At Heart The Pains Of Being Pure At Heart [Slumberland] Non sono solo un bel nome per una band e belle faccine da abbinarci: sono quanto di più bello in quest’anno ci sia arrivato dai tanti cloni della Sarah Records dei bei tempi. Melodie sognanti, voci intrecciate che è una meraviglia, titoli che la dicono tutta sul rimando ad esperienze adolescenziali dei nostri: “This Love Is Fuckin Right” è l’esempio massimo. Se tutti i cloni fossero così, sarebbe un mondo migliore. |
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#7) Grizzly Bear Veckatimest [Warp] Un disco coraggioso e non immediato, se confrontato con gli altri che l’hanno preceduto in questa mia selezione. Però la palma è loro, americani con i Beach Boys nel dna, un amore sconfinato per il pop, una genialità che li spinge a sperimentare soluzioni sempre diverse e originali pescando nel pop, nel jazz, nel folk, con coraggio e ambizione che stregano. Il risultato è un caleidoscopio musicale che intriga e affascina, lasciando sempre l’impressione di non essere ancora riusciti a farlo proprio fino in fondo. |
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#6) Bat For Lashes Two Suns [Astralwerks] Suoni curatissimi e originali, “Two Suns” è un disco atemporale, un classico istantaneo dai toni oscuri e notturni. Un cantato sinuoso, algido, vagamente reminescente di certe cose tra Kate Bush e Tori Amos (specialmente nelle ballate al piano), fa da perno e guida a delle sonorità davvero difficili da immaginare in simbiosi: scarni strumenti acustici, tastiere e sintetizzatori molto 80ies, percussioni quasi tribali e glitch elettronici. E soprattutto le grandi intuizioni melodiche di Natasha. Semplicemente e davvero brava. |
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#5) The XX XX [Young Turks] Tanto giovani e tanto onesti paiono. Alla faccia del tarocchismo delle band costruite, seconda puntata: chiunque avrebbe voluto diffidare di loro e chiunque ha dovuto cedere. Smorfiano Chriss Isaack (che proprio raffinato non è), usano dei loop da Festivalbar nascosti furbamente sotto sospiri e sussurri, ma ti colpiscono diritti in un’area non ben definita tra la lo sviluppo tardo-adolescenziale e l’insofferenza da nerd ultimo stadio. |
#4) Fuck Buttons Tarot [ATP] Un bellissimo secondo album per gli inglesi Fuck Buttons, che se non ci avevano stupito abbastanza l’anno scorso con la loro opera prima, quest’anno ce ne danno la conferma. Maestri della sperimentazione questa volta virata maggiormente verso sonorità più dance, sanno confezionare brani che sono dei veri e propri inni al noise nelle varie sfaccettature, capaci di ipnotizzarci e lasciarci senza fiato. |
#3) Wilco
Wilco (The Album) [Nonesuch]
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Non c’è più molto da dire su questo disco, e l’ascolto ininterrotto di queste favolose undici canzoni non smette di regalarmi piacere e divertimento. Intense, riflessive ma anche solari e gioiose, giocano con il rock, il pop, il country, li omaggiano e li reinterpretano, riuscendo a trasformarli e renderli ancora più intensi dal vivo, come avete potuto constatare se, come me, siete riusciti a raggiungerli in una delle date del tour di quest’anno. Il concerto e la band del decennio. Almeno per il sottoscritto. (Michele Tioli)
La vita di una persona dovrebbe essere come questo album. Dovrebbe svolgersi lungo linee melodiche perfette e meravigliose, tra momenti delicati e confusione assoluta, con la voce di Jeff Tweedy che timidamente riesce a dare sicurezza. Se dovessi elencare le cose più belle del mondo, i Wilco sarebbero sicuramente in lista. Nessuno riesce a scaldare il cuore come loro.
(Cristina Bernasconi)
Sul filo di lana ha perso il primo posto in classifica. Come ho già detto nella recensione al disco io e Wilco abbiamo fatto pace, dopo un periodo in cui non è che avessimo litigato, ma ci eravamo capiti di meno. Accantonato il lato sperimentale di “A Ghost Is Born”, Tweedy torna al folk-rock tout court, tra ballatone romantiche ed episodi elettrici che aggiungono un altro tassello indispensabile alla loro discografia. Come cita “Wilco the song”: Wilco will love you baby.
(Enrico “Sachiel” Amendola)
Un graditissimo ritorno, Tweedy e soci infilano una serie di ballate strappalacrime alternate a brani senza tempo riducendo lo sperimentalismo a favore di una maggiore ricercatezza melodica.
(Francesco “Lazzaroblu” Bove)
Ancora loro. Si, ma con uno dei migliori dischi della loro carriera. Il rock influenzato dal folk e dalle vecchie glorie inglesi degli anni “’60/’70 degli Wilco non risparmia nessuno. Un disco per tutti i gusti.
(Emanuele “Brizz” Brizzante)
Il più snob dei gruppi della presunta scena alternative. La più seria fra le band di nuova generazione. Tweedy e soci hanno fatto del “‘più’ una filosofia di vita, evidentemente. E così galleggiare un gradino sopra la media delle rock band in circolazione ti porta, prima o poi, ad incidere un album del genere, che pare essere il compendio della carriera dei quattro ragazzi di Chicago. Classico rock americano venato di country amarostico e classe infinita, con canzoni che, come un vestito realizzato a mano, si cuciono addosso con eleganza sopraffina. Prodotto garantito.
(Giuseppe “Joses” Ferraro)
#2) The Horrors
Primary Colours [Beggars Banquet]
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Emuli si, ma di qualità . Questo sono gli Horrors. Del look decadente e delle copertine di NME (per il quale “Primary Colours” è, ovviamente l’album-hype dell’anno) non me ne frega un cazzo: il disco è roba post-punk di primissima qualità . Anzi non è solo post-punk ma pure shoegaze. Tanto mi basta.
(Davide “Helmut” Campione)
Non ci sono più gli Horrors di una volta. I 5 belli-capelli inglesi cambiano rotta e sotto la produzione di Geoff Barrow (Portishead) virano totalmente verso atmosfere più ricercate, elettronizzate ed effettate. Le chitarre rimangono distorte in sottofondo, a favore dei synth, tra gli echi dei My Bloody Valentine e lo spettro dei Joy Division che esce direttamente dalla voce cupa di Faris Badwan. Un’ imprevista e perfetta sorpresa.
(Riccardo “Friccardo” Valentino)
Alla faccia del tarocchismo delle band costruite a tavolino, con le capigliature da modelli di Dior e l’atteggiamento per convenzione. Perchè questi qui, con il famigerato secondo album, si sono rivelati degni eredi della tradizione dark e post-punk più vera. “Sea Within A Sea” è proprio un gran singolo, l’album segue a ruota.
(Claudia Durastanti)
Hanno il “‘giusto’ background musicale, il “‘giusto’ look, la “‘giusta’ nazionalità . “Primary Colours” sembra la somma di tante cose già viste. E anche già sentite, tra lo shoegaze, il post-punk e il dark, ma è un disco fatto davvero bene, anche per coloro che li avrebbero scartati poichè troppo “‘modaioli’. Ricredetevi.
(Silvia “Anais”)
Un disco perfetto dall’inizio alla fine, magistrale per produzione, attitudine e canzoni. Ecco, “Primary Colours” è un disco di canzoni. E nel 2009 non è poco.
(Federico “Accento” Svedese)
#1) Animal Collective
Merriweather Post Pavilion [Domino]
Arrivati a 10 anni di lavori e 9 album, lo stile e la padronanza ormai si sono affinati, evoluti e consolidati. “MPP” infatti è ricco di melodie pop e psichedelie deliranti, tra ritmi frenetici loop ripetitivi e sintetizzatori fuorvianti. Tutto elettronico e ovattato, più analogico che digitale, stimolante ed ipnotico al tempo stesso.
(Riccardo “Friccardo” Valentino)
Sono decisamente il Gruppo (con la G maiuscola) del 2009. Arrivati al quinto disco non si lasciano scadere in banali ripetizioni e rimescolamenti di suoni precedenti, ma sanno come reinventarsi per sorprendere i vecchi fan e trovarne dei nuovi. Mirabolanti e psichedelici, un pop acido tra campionamenti, basi elettroniche e beat. Dei geni. Anche dal vivo, vincono il premio come migliori concerti dell’anno (non uno solo, ma tutti quelli che ho visto, sempre diversi uno dall’altro).
(Silvia “Anais”)
Un lucido delirio, un risveglio dopo una nottata passata in acido. O semplicemente la psichedelia nel 2009. I quattro che un tempo si vestivano da animali (ormai non più a quanto visto dal vivo) ci sorprendono con un gioiellino fatto di pochi riferimenti al folk e tanti rimandi all’essenzialità fatta di percussioni (vere o sintetiche) e suoni ‘saturi’ e che contiene pezzi da novanta come “My Girls” o la stupenda “In The Flowers”. Disco dell’anno.
(Emanuele “kingatnight” Chiti)
Ormai dei veri fuoriclasse, capaci di non sbagliare un colpo, sia che si tratti di un ep estemporaneo che di un vero e proprio album. Smisurati nella produzione, ricchi ed esuberanti anche nei suoni, l’ultimo “Merriweather Post Pavilion” ce li consegna ad un gradino successivo, ancora più definiti e sicuri nella loro micidiale alchimia di suoni e ritmi. Vera psichedelia del nuovo millennio, calata nei nostri tempi e capace di instillare genio e sregolatezza nel magma sonoro della dance contemporanea . E soprattutto cuore e umanità , gioia di vivere e voglia di divertirsi.
(Michele Tioli)
Un disco fatto di canzonette, canzoncine ed abusi di sostanze psicotrope. Sembrano dei bambini rinchiusi in una sala di giocattoli, con tutto ciò che ne consegue.
(Federico “Accento Svedese”)
Le classifiche dei migliori 10 albums del 2009 divise per redattore:
- TOP 10 ALBUM 2009 REDATTORI INDIEFORBUNNIES