Ero distratto, lo ammetto. Ho infilato “Other Truths” nel lettore CD dello stereo dell’auto e ho preso a fare la mia strada. Dritto, poi destra, un paio di chilometri, scalo giù fino alla seconda per via del maledetto semaforo perennemente di luce scura e freno.
Le mani tamburellano sul volante e penso che, in fondo, i Dianogah riescono ad evolvere restando fermi e che quest’ album non è male per niente.
Peccato si tratti però dei Do Make Say Think e non capisco bene che c’entri l’ottetto canadese con la mitica band di Chicago.
Parte malissimo, dunque, “Other Truths” ma per fortuna si fa voler bene col passare del tempo riuscendo a sviluppare un suo contesto che riempie in maniera degna di progressioni, climax misurati, improvvisazione e gioia di vivere. Il semaforo nel frattempo ha preso un colore più chiaro e “Do” (sì, le altre 3 tracce si intitolano genialmente “Make”, “Say” e “Think”) ha sviscerato un tessuto sonoro che ricorda da vicino un lo-fi prima maniera dall’incedere spontaneo, genuino, quasi primitivo. L’accenno di tastiere riconcilia con ambiti d’improvvisazione la cui estetica poggia le sue basi sulle costruzioni metriche dei primissimi 3 Mile Pilot e la loro disciplina quasi ascetica e penetrante.
Non è in discussione la bravura, l’ispirazione, la maestria poetica dei DMST in quanto questi stessi attributi hanno dato vita a lavori del passato come “Goodbye Enemy Airship the Landlord Is Dead” o il precedente “You, You’re History In Rust” che hanno fatto del proprio stile un vanto e dunque una critica in questo senso sarebbe materia da pedanti che lasciamo fuori da queste righe.
Il problema è forse proprio il vedere come, se di evoluzione si può parlare in “Other Truths”, essa si limiti a negare (per fortuna) i clichè del genere come il sempiterno crescendo da inizio soft e finale massiccio o gli stucchevoli arpeggi su cui poggiare un drumming convulso. Tutte eredità fastidiose di un genere (il post-rock) che ha finito per implodere sotto il peso di un’asfissia suicida e che non ritroviamo sull’album del combo di Toronto.
Il fatto è che ciò che resta è un lavoro dove c’è poco o nulla di memorabile, dove le melodie sono ben lungi dall’essere ricordate una volta estratto il CD dal lettore. Non c’è un passaggio il cui andamento resti impresso, non c’è una soluzione armonica degna d’essere ricordata e, soprattutto, non esiste un solo momento in cui si possa essere sicuri di ascoltare i Do Make Say Think e solo i Do Make Say Think.
Lo sforzo compositivo è relegato ai margini attribuendo all’album un’aura di interlocuzione. Buoni gli spunti con Katia Taylor dei Lullabye o le derive folk derivate dagli innesti di membri della Akron Family.
Il problema forse è proprio che questo è un buon disco che se fosse stato leggermente meno riuscito avrebbe instillato in noi il dubbio legittimo di essere al cospetto di una maturazione o di una violenta evoluzione. Avremmo pensato di non poter comprendere il drammatico cambiamento e la nuova deriva mentre invece, al contrario e purtroppo, ci appare palese la stanchezza di un prodotto come “Other Truths”. Spengo, chiudo, me ne vado e penso ad altro.
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