Il sogno di Francis Ford Coppola è sempre stato quello di girare un film come “Tetro”.
Per uno come lui – ossessionato da sogni titanici come quello dell’American Zoetrope o da vere e proprie odissee come la lavorazione di “Apocalypse Now” – l’ambizione di un cinema personale e indifferente alle regole produttive, alle convenzioni della distribuzione, alle leggi del mercato e a quelle del pubblico, è sempre rimasta tanto viva da sfociare nella dannazione.
Si potrebbe sostenere che una parte di “Tetro” è addirittura nata quando Coppola era ancora un ragazzo.
Negli anni cinquanta, a New York c’era un network che trasmetteva un programma dal titolo “Million Dollar Movie”: aveva acquistato l’intero pacchetto della RKO – ormai sulla via del fallimento – e passava un film per una settimana intera, diverse volte al giorno.
Quasi tutti i cineasti nati da quelle parti (tra cui anche Martin Scorsese e George Andrew Romero), rimasero impressionati da “The Tales of Hoffman” di Michael Powell e di Emeric Pressburger: soprattutto, diede a loro l’idea di come fosse possibile girare dei film visivamente affascinanti con pochi mezzi, con semplici trucchi fotografici.
Per loro, era la prima illusione di un cinema alla portata di tutti: un’idea che è sempre stata al centro della fallita rivoluzione di Coppola, che con la Zoetrope voleva produrre chiunque avesse un progetto interessante da girare.
La prima impressione rende “Tetro” come un film francamente indigeribile.
E’ tanto lontano dalla drammaturgia classica che per vederlo bisogna armarsi di pazienza, animati dalla devozione verso uno dei più grandi maestri della New Hollywood.
Eppure, è uno di quei sogni febbrili che non possono che lasciare ammaliati i coraggiosi che riescono ad arrivare fino alla fine: anche perchè solo chi ha un’incrollabile fede nel cinema può arrivare a concludere un’impresa tanto complicata.
E’ un ingarbugliato delirio in cui Coppola mischia reminiscenze cinematografiche come appunto “The Tales of Hoffman” con i propri conflitti irrisolti (anche suo padre era un musicista), e torna a temi sentiti come quelli legati ai conflitti familiari: tutto è però molto confuso, rarefatto, allusivo.
Quello che incanta in “Tetro” è semmai il senso del cinema del cineasta, che esorcizza l’eterogeneità dei contenuti con una forma affascinante: tanto che nelle sequenze iniziali, la fotografia da noir anni trenta lascia pensare che l’ambientazione sia davvero d’epoca, al punto che quando pochi minuti dopo fa la comparsa un Motorola, si avverte un certo spaesamento.
Se la rituale evoluzione del racconto viene rifiutata, non lo è affatto l’idea di messa in scena: Coppola usa il digitale, inserisce flashback a colori nel bianco e nero perfetto del tempo diegetico, e vive in due ore lo stesso paradosso che è stata tutta la sua vita artistica.
La contraddizione di un uomo che crede nella visione totale dell’arte e che deve la sua fama ad una saga – quella de “Il Padrino” – che non avrebbe mai voluto girare, se non lo avessero costretto i debiti e le dure leggi di Hollywood.
Ora che è libero di fare i film che vuole – in uno dei tanti paradossi della sua vita, è diventato molto ricco come produttore di vino – Coppola ha il tempo di inseguire quella libertà dello sguardo che ha sempre cercato.
Un percorso di regressione/rigenerazione iniziato con “Un’Altra Giovinezza” e in questo caso perseguito con coerenza.