Un pregio dei Beach House: l’essere riusciti a dipingere, fin da subito e senza sforzo, un immaginario forte e personale collegato al proprio nome. Colori, paesaggi, dettagli: è facile far dialogare l’immaginazione con la loro musica, e i quadri che ne escono sono definiti, sereni. Un difetto dei Beach House: una volta creato, un immaginario tanto forte può diventare scomodo. Lega la band a suoni ed atmosfere ben precise: una strada obbligata da percorrere, che se troppo assecondata rischia di sfociare nella ripetitività e se abbandonata può portare ad una perdita di identità difficile da ricomporre. Con “Teen Dream”, loro terzo album, il duo di Baltimora sembra ben consapevole della propria condizione e, con la grazia che da sempre li accompagna, prova a tracciare un futuro possibile.
Si riprende dove si era finito un paio di anni fa: quel “Devotion” che aveva catturato l’anima eterea dell’esordio omonimo e le aveva regalato il contrappeso necessario, di melodie e di arrangiamenti, per non volare via e galleggiare invece serena a mezz’aria. L’apertura di “Teen Dream”, “Zebra”, ricalca lo stesso schema di arpeggi luccicanti e suoni rotondi che animava quell’album, ogni volta racchiusi tra le pieghe di una melodia sontuosa. Poi, nel finale, un synth sullo sfondo apre ad un paesaggio più ampio: dettaglio che sembra voler sfuggire diluendosi in una formula ormai certa, ma capace invece di raccontare i toni nuovi di questo disco.
Non è soltanto questione di sicurezza raggiunta, di padronanza del proprio suono e delle proprie capacità compositive. C’è anche quello, senza dubbio: “Walk In The Park”, “Silver Soul” e “Better Times” ne sono buoni esempi. Lo scarto, sottile ma decisivo, è però verso un’apertura di campo, come se la maggiore concretezza cercata e trovata nel disco precedente fosse diventata quasi un ostacolo. La scelta è quella di allargare l’inquadratura e fare spazio a paesaggi ariosi che giocano con toni epici. Restano i colori malinconici e sgranati, le immagini d’altri tempi, l’erba alta e quella casa sul mare fotografata ad autunno già iniziato. Solo, si allarga lo sguardo. I cambi decisi di “Lover Of Mine”, il finale dreamy-gaze di “10 Mile Stereo”, il gioco a rincorrersi di piano e voce in “Used To Be” sono le impronte sulla sabbia lasciate dai Beach House in questa nuova passeggiata, che si spinge un po’ più lontano di quella precedente.
In “Devotion” il singolo di punta era “Gila”: notturno, guidato dai movimenti di un organo incessante e dalla voce sicura di Victoria Legrand che rotolava sull’ultima vocale, “Gila-ah-ah-ah-ah”. Qui lo stesso compito è affidato a “Norway”, e il confronto spiega bene cosa sia cambiato. “Norway” è luminosa, vasta, trascinata da un arpeggio veloce, e sollevata in aria ogni volta che Victoria ripete il titolo, Norway-eh-eh-ehi-eh-eh-eh-eh-eh-ehi. Non è un disco perfetto, “Teen Dream”, per una buona parte è occupato dai Beach House che già conosciamo. Ci sono spunti, momenti, canzoni, però, capaci di guardare avanti e immaginare cosa ancora possa succedere.
Credit Foto: Shawn Brackbill