Dovreste vedere le vostre facce”…
Chissà davvero come erano le nostre facce, quelle vecchie maschere da spettatori di cinema, antiche come gli esseri umani non ancora toccati dal “‘performance capture’.
Sarebbe stato bello osservarle, proprio quando la pilota Trudy guidava la squadra di scienziati sulle montagne Alleluja e canzonava il loro stupore di novellini: sembrava che ci fosse proprio Cameron lì con lei, a studiare compiaciuto l’effetto sul suo pubblico di un’ora di incredibili invenzioni e scenografie mai viste, e a domandarsi se fosse proprio la stessa sensazione provata nel primo fumoso cinematografo, quando per le strade di Parigi si diceva che in quel salone ci fosse un treno che sembrava bucare il muro ed entrare nella stanza.
“Avatar” è un film di tre ore che finisce con qualcuno che apre gli occhi: è il legame più evidente con “2001” di Stanley Kubrick, un altro costosissimo esperimento che ha cambiato per sempre il modo di concepire il cinema in termini di spazio e di rappresentazione.
E’ impossibile dire se quelle palpebre che si aprono stiano annunciando un nuovo modo di assaporare un film, o se meno ambiziosamente siano solo il modo per chiudere il cerchio di un lungo percorso di allenamento a cui le nostre percezioni sono state sottoposte.
E’ impossibile persino dire se questo sia o meno il miglior film mai fatto dal regista canadese: è più semplice sostenerlo come un’altra cosa di James Cameron, un’altra impresa di uno che – sin da quando sedeva al tavolo degli effetti speciali della scalcagnata New World Pictures di Roger Corman – aveva in mente di cambiare il modo di fare i film, di vederli, di viverli.
Il suo “Avatar” è quindi una nuova educazione allo sguardo.
Lo si capisce quando Jake Sully deve completare il suo tirocinio come Na’vi, e deve presenziare alla cerimonia con cui si offre al suo popolo: adesso il marine paraplegico ha i suoi nuovi occhi da indigeno, e gli è consentito di vedere Pandora, i suoi abitanti, le infinite connessioni con ogni elemento di quella terra.
L’iride, la pupilla e il cristallino di una razza che non ha mai detto ‘ti amo’ (parola forse inflazionata come un certo tipo di cinema, lo stesso che Cameron ha contribuito ad istituire con “Terminator 2” e “Titanic”) ma che lo ha sempre sostituito con ora ti vedo.
Sono gli occhi che non mentono mai, e il cinema è la verità per ventiquattro volte al secondo.
Non è sbagliato chiamare in causa una delle storiche battaglie dei Cahiers du Cinema sulla vocazione ontologica del cinema, sulla sua perenne ambizione/illusione di ricreare il meccanismo del mondo, e meno che mai lo è in riferimento alla fantascienza, per quanto l’associazione possa sembrare paradossale.
Tanto per citare Andrè Bazin: Il fantastico al cinema è consentito solo dal realismo irresistibile dell’immagine fotografica. E’ essa ad imporci la presenza dell’inverosimile, a introdurlo nel mondo delle cose visibili (…) Non è un caso che il primo a comprendere le possibilità artistiche del cinema, George Meliès, fosse un prestigiatore
Bisognerebbe ringraziare Cameron anche solo perchè ha dato una lezione – una lezione che si cambia sempre l’abito del film di genere, dal più brutale war-movie ai più antichi stratagemmi del melodramma, fino alle classiche influenze panteistiche della sci-fi, con il consumato contrasto tra scienza ed esercito – a tutti quei presunti autori che poggiano la loro considerazione critica sul piacere sadico di sostenere come il cinema sia morto.
Il cinema invece evolve, come James Cameron ha dimostrato: bisogna avere coraggio e amore per uccidere il proprio figlio e talento ed idee per farlo rinascere.
Ora è complicato indovinare i contorni di quello che ne sarà dopo che questo ciclone sarà finito e la polvere si sarà posata.
Forse il cinema sarà proprio un “‘avatar’, incapace di essere percepito e vissuto dai nostri semplici occhi senza l’ausilio delle lenti polarizzate: anzi, qui questo film pazzesco vorrebbe addirittura dichiarare che senza non saremmo capaci nemmeno di piangere o di sanguinare, di provare un briciolo di empatia.
Cameron ci dice da sempre come il corpo umano un giorno diverrà inadeguato, e lo fa dai tempi di “Terminator”.
Qui ha bisogno di un soldato che ha perso l’uso delle gambe, o di altri militari che non possono fare a meno di esoscheletri e di estensioni meccaniche, come la Sigourney Weaver di “Aliens”.
Potrebbe essere lui stesso a dircelo, dopo questa immensa semina da trecento milioni di dollari di budget, e da due miliardi di incasso.
Quando vorrà , ci svelerà un altro segreto: per il momento, ha chiuso un decennio e ne ha aperto un altro.