A distanza di quasi sette anni dalla sua uscita, viene ridato alle stampe “Campfire Songs”, terza fatica degli Animal Collective, registrata però nel 2001. Se qualcuno avesse conosciuto il gruppo solo con l’uscita dei più accessibili e forse anche più riusciti “Strawberry Jam” e il più recente “Merriweather Post Pavilion” (con quel “Feels” che li precede che, a questo punto è relegato al ruolo di disco spartiacque), al primo impatto con questo disco si sentirà come minimo spiazzato.
La vena più pop che caratterizza i sopracitati ultimi due lavori è qui ancora lontana, visti i cinque pezzi che compongono l’opera, in cui sono le componenti folk e le suggestioni più lisergiche e allucinate a dettar legge. Già prestando ascolto ai dieci minuti di “Queen In My Pictures”, dove si incontrano intrecci vocali di ispirazione orientaleggiante alternati a quelli che sembrano dei lamenti, accompagnati da quelle chitarre acustiche che per tutta la durata del brano insistono sui medesimi accordi, siamo sicuri di non esser davanti ad un disco ascoltabile in qualsiasi occasione. C’è quella loro personalissima psichedelia che pian piano, con il susseguirsi delle prove in studio, il collettivo animale smusserà , levigherà , senza mai abbandonarla del tutto, approdando in territori decisamente più beachboysani, caratterizzanti soprattutto “Merriwheather Post Pavillon” uscito l’anno scorso, che li ha consacrati come una delle band più uniche e personali del nuovo millennio.
E’ infatti difficile trovare dei veri e propri termini di paragone da abbinare alla musica del gruppo di Panda Bear e Avey Tare, che riutilizzano con maestria e originalità canoni della musica folk e ‘rock’, trapiantandovi all’interno inserti elettronici, cosa che, però, avviene pochissimo o quasi per niente nel disco in questione. In pezzi meno ostici come “Doggy” e “Two Corvettes” c’è più vicinanza con la forma canzone più standardizzata, rimanendo sempre nei pressi del folk, con trame acustiche in primo piano. Al contempo, gli Animal Collective operano anche una destrutturazione dei canoni tradizionali della popular music, senza voler mai ambire al ruolo di grandi sperimentatori o sedicenti avanguardisti; cosa che si potrebbe dire di loro ascoltando quella “Moo Rah Rah Rain” che tende a sfociare nell’ambient. La conclusiva “De Soto De Son”, se comparata ai precedenti quattro episodi, è forse il momento in cui fa capolino un barlume di melodia lineare, sempre alternata, chiaramente, al folk di natura dilatata e psych che è elemento pregnante di tutto “Campfire Songs”.
Un disco che senza dubbio merita di esser riscoperto (o anche approcciato per la prima volta), soprattutto alla luce dell’attuale evoluzione della band di Baltimora, che con tutta probabilità ha ancora molte carte da giocarsi, aggiungere un tassello alla propria opera e riservare piacevoli sorprese.