Con i piedi intorpiditi dalla neve e le orecchie risvegliate dai Tindersticks, una mattina di Gennaio, dopo 3 anni di assenza ingiustificata, trono a far comparsa sull’uscio di casa. Oggi sono poco più che ospite.
La mano esita sul campanello, ma prima che Axel mi sorprenda all’ingresso, i tonfi del mio pugno rimbombano decisi sul portone.
Come ogni buon ospite che si rispetti non mi posso certo presentare a mani vuote, ed ecco questa mia, per te che di robba buona c’hai farcito il lettore.
Tindersticks alla mano e lo sguardo sulla copertina, ho infine, 15 anni dopo, qualche dubbio su chi fosse un ‘beautiful loser’, fra il gruppo di Stuart Staples e tutto il Brit Pop d’allora.
La scelta di “Falling Down A Mountain” non è casuale, i Tindersticks non sono mai casuali. Ti attraversano le orecchie durante una visita giù al negozio di dischi e non te li togli più. Ti entrano sotto la pelle, quasi ti fanno vergognare di chiedere al commesso di chi si tratta, e “da grande” il loro ultimo disco di turno, continuerà a presentarsi puntuale nel tuo stereo.
L’ottava usicta dei Tindersticks, lasciando fuori collaborazioni e ost, sancisce la piena maturità del gruppo. Certo chiunque può dirti che il primo periodo era ‘di più’ e che l’esordio omonimo e “II” sono e rimarranno insuperati, ma credo che alla Constellation Records (4AD qua da noi) non si arrivi per caso. La loro seconda uscita per la label canadese, per me è uno zenith artistico, punto.
“Falling Down A Mountain” è ancora una volta chamber pop orchestrale, altalenante fra malinconia e sprazzi soul leggermente più vivaci (“Armony Around My Table”, “She Rode Me Down”).
La traccia che apre il disco dovrebbe essere una strumentale, da tradizione, e invece troviamo il jazz da parquet in punta di bacchetta dell’omonima Falling Down a Mountain. Il virtuosismo solo suonato lo troviamo in fondo ed è Piano Music.
“Keep Your Beautiful” ti si staglia davanti come luce lunare a schiarire un paesaggio agreste, ma da qui in avanti il disco resta uniformemente fedele a questo mood.
Passano gli anni, e la voce di Stuart Staples è uno dei punti fermi, come il pezzo strumentale o l’atteso duetto. C’è chi vi vede l’ombra di Nick Cave, chi la vena romantica di Choen io, lo confesso, ripenso ai Lambchop e a quella Nashville tanto sognata e sempre così vicina.
Dei Tindersticks ho sempre apprezzato la cura dei dettagli, la classe, ma soprattutto la semplicità .
Quando giocavo (seriamente) a calcio a 5, mi consigliavano di prendere il fruttosio prima della gare. Tranquillo non è una droga!
Il fruttosio è un dolcificante complesso viene assimilato a poco a poco al contrario dello zucchero che entra subito in circolo e ti da una discrta ‘botta’ nell’immediato, per mandarti giù più avanti.
Ora, avrai capito da questa misera storiellina che non sono un medico o chessò, un nutrizionista. Però i Tindersticks mi hanno sempre dato l’impressione dello zucchero.
Ecco vedi, loro sono “‘facili’ da assimilare, la loro musica tanto è bella e affine al bello in sè, che viene facilmente assorbita. La cosa bella è che questa semplicità non coincide mai con la banailtà , anzi.
La grande magia dei Tindersticks sta nel mettere in musica la complessità della bellezza. I testi di “Peanuts”, ad esempio, di per se parrebbero scritti da Simple Jack (si veda “Tropic Thunder” n.d.a.) e invece lo svolgimento in duetto con Mary Margaret O ‘Hara, su ‘quattro’ note di piano, ne fanno uno dei momenti più riusciti del disco. Ho parlato di Mary Margaret O’Hara? Allora è giusto annoverare anche la collaborazione con David Kitt, pluripremiato musicista irlandese accasato alla Rough Trade.
Canzoni ombrose e dense, che 20 anni fa facevano di questo gruppo un’eccezzione nel mare Brit-Pop che circondava Notthingham, oggi fanno dei Tindersticks uno dei gruppi più credibili e “di spessore” in circolazione.
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2. Keep You Beautiful
3. Harmony Around My Table
4. Peanuts
5. She Rode Me Down
6. Hubbard Hills
7. Black Smoke
8. No Place So Alone
9. Factory Girls
10. Piano Music