E grazie a Dio che i beatniks non sono scomparsi. Ogni tanto i pensieri “‘altri’ rispetto alla pratica comune tornano ad esprimersi, trovano anime illuminate in cui incarnarsi e riproporre idee nate ormai più di quarant’anni fa. Nostalgia a go-go allora? Non proprio, direi.

Il collettivo che arriva finalmente con “Thank God For Beatniks” al debutto sulla lunga distanza, a nove anni dalla nascita della ragione sociale, un po’ oscura verrebbe da dire, di 3 Shades, nasconde in realtà  personaggi che percorrono le scene musicali mittel-europee già  da parecchi anni. Quattro le menti all’opera nel progetto, che nasce e si muove nel fertile terreno tedesco di Monaco e dintorni, musicisti all’opera in gruppi del calibro dei The Notwist, Lali Puna, Tied & Tickled Trio, Mrs. John Soda e altri, con attitudini e sensibilità  concrete, folk ed elettronica come matrici terrene e conosciute, proponendo bellissime operazioni di contaminazione che esplorano le possibilità  di genere, senza perdersi in una sperimentazione fine a se stessa. Uniti ora in un “‘supergruppo’ che prende in parte le distanze dai lavori delle band di appartenenza per abbracciare una ricerca tutt’altro che intellettualistica. Suoni spartani e disadorni ma in buona parte acustici e caldi, suonati e non elaborati, sublime strumento attraverso cui prendono forma storie e suggestioni di presa immediata.

La scommessa questa volta era di lavorare sui confini, sul filo che dai suoni acustici del folk e di una elettronica minimale e defilata si spinge verso territori che con il jazz spartiscono la propensione a muoversi senza seguire schemi predefiniti, ricamando melodie e paesaggi sonori dove la libertà  di improvvisazione sembra la chiave e lo sbocco per le sette composizioni proposte. A questa attitudine free e open-mind, si unisce l’eredità  di un certo reading anni sessanta, contestualizzato in situazioni hip-hop e di poesia urbana.
Due in particolare le perle del disco. La prima si chiama “El Topo”, dichiarato omaggio all’omonimo western di Jodorowsky, anno 1970, dove suggestioni desertiche e messicane prendono le forme di una ballata waitsiana, con una chitarra che piange torturata da un emulo di Marc Ribot, fermata solo da un coro di ottoni mesto e cacofonico. L’altra è la title-track, “Thank God For Beatniks”, che possiede la straordinaria leggerezza delle migliori composizioni di certi Yo La Tengo, fluida ed impalpabile, distesa e rarefatta, con liriche basate su un testo di Bob Kaufman, poeta e musicista della beat-generation.

Non sono da meno però le altre cinque composizioni, con piccoli importanti ospiti, come Fat Jon in “Subsequently”, che collabora innestando una trama hip-hop su una base musicale acustica ai limiti di una folk-tronica con ritmi in crescendo, o il poeta Mike Ladd, che declama i suoi versi in un reading adagiato su una base in bilico tra sperimentazione e certi brani circolari cari ai The Notwist. Nella traccia finale, “Counting The Days”, un altro ospite, Jihae Jean Meek , all’opera in gruppi di stampo indie-pop, si presta per una ninnananna dolce e distorta, dove una chitarra slide e qualche percussione ci spingono verso la notte.
Le coordinate sono sempre quelle di una musica abbastanza rarefatta, che riesce però a sviluppare il minimalismo caro ai Mùm o ai Lali Puna, spogliato di elettronica e astrazione e rivestito col calore di strumenti acustici, corde e fiati e percussioni liberi di seguire le inclinazioni dei loro bravissimi esecutori. Un disco riuscito, che chiede un pizzico di attenzione e ripaga con grandi quantità  di dolcezza e di fascino. Musica per menti aperte, lucide e inclini ai mutamenti.

Cover Album

Thank God For Beatniks
[ Alien Transistor – 2009 ]
Similar Artist: Yo La Tengo, Marc Ribot, Mùm, The Notwist
Rating:
1. Bombay Can
2. Subsequently
3. El Topo
4. Tiny Bits of Terrible
5. Thank God for Beatniks
6. Sometimes Up
7. Counting the Days