E fu così che i norvegesi Jaga Jazzist arrivati al quarto disco iniziarono a suonare progressive come se fossimo negli anni settanta e la rivoluzione punk non fosse null’altro che qualcosa di molto lontano a venire.

Detta così una frase del genere non dice nulla di come suona un disco come “One Armed-Bandit”, o forse dice moltissimo: i Jaga Jazzist hanno finalmente compiuto la definiva trasformazione che da tempo era nell’aria ed ora suonano lunghe, epiche ed articolate suite che li fanno somigliare più ai favolosi Soft Machine che alla big band dei primi tre dischi, quella che fondeva jazz, elettronica e post-rock di scuola Tortoise e che avevamo potuto ascoltare (ed ammirare) nei primi tre dischi.

Eppure “One-Armed Bandit” dietro la solita copertina inguardabile (le copertine inguardabili sono un must per una band come quella norvegese) nasconde nove brani che sono tutt’altro che sterili esercizi di stile fatti tanto per ostentare al mondo la propria bravura tecnica. C’è tutto un mondo dietro a cose come “Book Of Glass”, “Toccata”, “Music Dance Drama” e la omonima title track: un mondo fatto di amore per i particolari e i dettagli curati, un mondo di coraggio e voglia di rischiare pur suonando nel 2010 un genere nel quale è facilissimo varcare la soglia del cattivo gusto e dell’inascoltabile, un mondo nel quale sei una band di 27 elementi eppure riesci a suonare caldo ed armonico e sei ancora in grado di far emozionare l’ascoltatore. Se poi ci aggiungiamo fascinazioni afrobeat, componente elettronica utilizzata per lo più in chiave ambient e John McEntire dei Tortoise alla produzione otteniamo che “One-Armed Bandit” è un signor disco, uno di quelli che necessitano di tempo e pazienza per essere capiti ma che una volta assimilati sono in grado di prenderti per mano e portarti via, lontano nel tempo e nello spazio.

Credit Foto: Anthony P. Huus