Jason Reitman torna a mettersi in proprio, dopo essersi prestato allo splendido script di Diablo Cody che gli aveva regalato “Juno” e la consacrazione internazionale.
Lo fa senza tradire le premesse di quello che è ormai il suo cinema, insolitamente maturo e pieno di personalità , per uno che è appena al terzo lungometraggio come regista, e al secondo come sceneggiatore: raccontare gli Stati Uniti e la loro storia recente con una leggerezza che entusiasma, che non può e non deve essere confusa con la superficialità .
Ryan Bingham fa una delle professioni più spregevoli che possano capitare: licenzia persone dopo una vita di lavoro, visto che i capi che le hanno sfruttate non hanno il coraggio di farlo.
Come dice il suo capo ha la dignità di pugnalarli al petto piuttosto che alle spalle, ed è l’unica virtù che gli si possa riconoscere, nello sbando della crisi economica.
Reitman decide di tornare alle sue origini, alla splendida caratterizzazione di Aaron Eckhart, che era il protagonista – l’avvocato senza scrupoli delle multinazionali del tabacco – del rivelatorio “Thank You For Smoking”.
Negli Stati Uniti di oggi, quella di Bingham è diventata una delle professioni più richieste: Reitman lo fa atterrare senza sosta nei cuori pulsanti della vecchia nazione prospera ed operosa che sta svanendo a poco a poco.
Sotto la pancia delle centinaia di aerei che scandiscono la sua vita sfilano i nomi di città che il mito industriale dell’America ha reso famose: Detroit, Wichita, Des Moines, o la gloriosa Saint Louis (Linderbergh è decollato su questa pista, prima di attraversare l’Atlantico…) ridotta ad edifici pieni di uffici vuoti e dismessi, in cui tutti ormai si aspettano la condanna a morte e il boia, cioè il suo arrivo.
Tuttavia, gli americani non amano parlare del loro paese e dei loro problemi in modo diretto: lo fanno sempre per mezzo di qualcosa o di qualcuno.
Bingham è costretto a condurre una vita spersonalizzante e priva di qualsiasi empatia, sentimento che gli impedirebbe di essere efficiente, che lo renderebbe in qualche modo vulnerabile, identico alle persone a cui deve dare il colpo di grazia.
Nella splendida sequenza iniziale, la metodicità con cui si muove in tutti gli aeroporti, lieto di non avere niente che non possa essere messo in un pratico trolley, identifica il suo bisogno di avere un alibi o una copertura, per difendersi dal disagio etico che il suo lavoro gli impone.
Si nasconde dietro lo scudo della disillusione del quarantenne, schifato dall’ipocrisia sottointesa all’idea di avere una casa, una moglie, dei figli e delle responsabilità , tutto quello che gli americani vorrebbero (è quello che ci hanno promesso!); quando una giovane studentessa studia un metodo per licenziare i dipendenti da una web-cam, lui può anche arrogarsi la dignità umana del suo modo di lavorare: la finzione nel compatirli, nel trovare per loro un’illusoria speranza di una seconda possibilità .
Sa bene che non deve fare entrare la vita dentro i suoi aerei, e crede di esserne sufficientemente lontano.
Eppure, non può farne a meno.
Proprio quando torna ad essere un individuo come gli altri, capace di affezionarsi e di avere dei sentimenti, anche lui deve subire l’onta del licenziamento, ancora più dolorosa perchè segna la sua dismissione affettiva.
Il personaggio centrale di “Tra Le Nuvole” – costruito ancora una volta sulla forza di una sceneggiatura impeccabile ed impietosa – diventa piuttosto Vera Farmiga, lo specchio della sua sconfitta e di quello che Reitman pensa siano diventati gli Stati Uniti: un posto in cui credere a qualcosa che non vada oltre la propria sopravvivenza è diventata la sfida più coraggiosa che si possa intraprendere (del resto, come quella di una ragazzina di sedici anni che decide di portare fino alla fine una gravidanza).
“Tra Le Nuvole” ha la forza di non far scendere il racconto lungo la strada della facile redenzione: anzi, riesce a ribaltare perfettamente l’attesa del finale scontato, del solito percorso di formazione catartico che ad un certo punto tutti si aspetterebbero.
E nello stesso tempo, riesce a non essere completamente arrabbiato, definitivamente amaro.
George Clooney ha carisma da vendere: la sua interpretazione – affettatamente cinica, ma allo stesso tempo completamente disorientata – è degna dell’Oscar.
Peccato che – chiamato alla conferma dell’Academy – il talentuoso Jason Reitman debba sempre scontrarsi con dei mostri sacri: “Juno” uscì sconfitto da “Non E’ Un Paese Per Vecchi”, e adesso ha davanti a se niente meno che James Cameron…