La musica è affare tremendamente semplice. Quando inizia a complicarsi la vita è segno che l’ispirazione sta lasciando spazio alla premeditazione la quale, come nelle migliori pellicole americane, è un’aggravante che non lascia spazio a formule compromissorie. Kieran Hebden conosce queste dinamiche alla perfezione e, sebbene mi piaccia immaginarlo nella sua veranda di Putney con vista sul Tamigi a contare le scie delle canoe che tranquille ne solcano le acque, la storia dell’ultimo lustro non è andata esattamente in questo modo. Sono stati 5 anni di libertà creativa, di applicazioni sperimentali con le braccia protese ora al jazz (splendido l’album “NYC” col grandissimo Steve Reid), ora al post-rock fluido e minimale dei suoi Fridge.
“There Is Love In You” è sicuramente l’album più cerebrale, diretto del DJ londinese. Pesca a piene mani dalla struttura pop riuscendo nell’intento di non suonare pop. Non si lega agli schemi metafisici del genere approfittando forse dell’esperienza accumulata dai tempi dell’ultimo “Everything Ecstatic”. Ci sono gli episodi puramente folktronici come “Sing”, tracce più frammentate (‘elegantemente confuse’, verrebbe da definirle) come “Circling” e quelle con una ritmica lievemente più decisa come “This Unfolds” in cui un accenno di drumbeat rincorre l’urgenza quasi-dance del singolo “Love Cry”.
Il filo conduttore dell’album è sicuramente una semplicità disarmante o meglio: la totale mancanza di premeditazione rende “There Is Love In You” un lavoro disarmante per la totale mancanza di artifici dinamici, tessiture composite o violenze sonore. No, Hebden non ha più bisogno di ricorrere alla conoscenza e riesce ad usare solo ed esclusivamente la sua coscienza che, neanche a dirlo, è condizionata a posteriori dall’esperienza accumulata nel tempo. La stessa coscienza risente comunque di una forte influenza kraftwerkiana che affiora decisa nella già citata “Love Cry” o, più in generale, sulle derive più puramente elettroniche.
L’organicità di “There Is Love In You” è comunque in questione. I campionamenti sono per la maggior parte vocali (“Reversing”) e contribuiscono alla costruzione onirica dell’album che è il vero e proprio marchio di fabbrica Four Tet. Al bando dunque le tentazioni arabesche di “Dialogue” e “Rounds” in luogo di un’esplorazione meno razionale e omogenea.
La chiave di lettura dell’album è la più semplice possibile: l’ascolto. Lo si assimila lasciandolo scorrere, lo si apprezza nel suo fluire e solo ed esclusivamente se ci si pone con la mente pronta al varco per una dimensione di confusione democratica in cui non esiste un solo stile che possa dirsi più presente di un altro.
Four Tet continua il suo viaggio tenendo per mano il testimone che, da Orbital ad Aphex Twin, il tempo gli ha consegnato. Kieran Hebden non ha inventato la musica e il suo unico merito è quello di lasciarla libera di essere se stessa. Un difetto per i puristi, un dono per tutti gli altri.