Ormai il pubblico horror è talmente smaliziato che per essere efficaci e spaventare davvero si deve necessariamente ricorrere al finto documentario.
Questo evidentemente pensano registi, produttori e addetti vari del genere di paura. Altrimenti non si spiegherebbe il proliferarsi di pellicole come “Rec”, “Cloverfield” il recente “Paranormal Activity”, per citare alcuni titoli discendenti dal capostipite “The Blair Witch Project”.
Il quarto tipo segue tale tendenza, peccando però di una furbizia illecita che allontana il valore del film dagli altri prodotti indicati.
Al di là della specifica opinione sulla qualità , la strega di Blair ha avuto l’enorme pregio di rappresentare una nuova dimensione fino a quel momento sconosciuta, mentre “Rec & Company hanno contribuito in modo personale, e per certi versi originale, ad allargare e diffondere il mockumentary, ovviamente con esiti differenti.
Nome, cittadina dell’Alaska. La dottoressa Abigail ha da poco perso il marito, ucciso per mano di uno spietato quanto misterioso assassino. Nel tentativo di scoprire qualche elemento in più, la donna prosegue gli studi che il marito stava eseguendo prima della morte riguardo certi disturbi del sonno che stanno colpendo diversi individui della comunità locale. La psicologa, attraverso l’utilizzo della regressione ipnotica, cerca di comprendere le basi dello strano fenomeno.
L’errore principale e più grave de Il quarto tipo sta nell’atteggiamento piuttosto sleale coincidente con la negazione dell’artificiosità dei contenuti esibiti.
Sono quattro le forme di interazione con gli alieni: avvistamento, prova della presenza, contatto diretto e rapimento. Tre soltanto erano le possibilità di intervento che aveva Olatunde Osunsanmi: girare una semplice trasposizione cinematografica, magari richiamando alla mente dello spettatore le effettive analogie con fatti realmente accaduti; realizzare nel totale un falso documentario, stile “The Blair Witch Project”, presentandolo spudoratamente per vero; confondere le cose, alternare le sequenze platealmente inventate a scene dichiarate autentiche, eppure del tutto ricostruite in studio.
Osunsanmi ha scelto quest’ultima strada, la più sbagliata.
L’intervista alla ‘vera’ Abigail (ovviamente non accredita nei titoli. Ah, furbo regista!), gli accostamenti, tramite split-screen, le registrazioni spacciate per originali tracce audio, rappresentano una trovata nelle intenzioni astuta, ma in concreto fastidiosamente maliziosa.
Eppure la storia presentava opportunità importanti per trarne un buon racconto. Il contesto ambientale asseconda perfettamente il senso di soffocante isolamento, la scelta di collocare praticamente tutti gli episodi in spazi ristretti suggerisce una profonda percezione claustrofobica, peggiorata in termini di angoscia dall’ambito domestico che contrasta fortemente con il dramma interiore dei personaggi.
Non mancano neppure alcuni momenti di credibile turbamento, e talvolta si salta sulla sedia appena oltre quanto si vorrebbe: gli attacchi sotto ipnosi sono tempestivamente improvvisi, le pronunce incomprensibili e la dichiarazione spezzata circa la sparizione della bambina provocano ansia, ma è in particolare l’interpretazione della ‘vera’ psicologa a insinuare smarrimento e inquietudine. Di contro “Milla Jovovich” perde nettamente la sfida, con una recitazione o troppo sottotono, o al contrario, troppo vibrante, perdendo così attendibilità .
L’originale dottoressa invece mostra un’espressione sofferta ammissibile, plausibile nella comunicazione catatonica, convincente nelle esplosioni di disperata persuasione. L’effetto sarebbe straordinariamente disturbante, se fosse vero. Ma non lo è.