Lou Bond non può essere considerato alla stessa stregua degli altri artisti che popolano il Music Business, sia quelli presenti che quelli futuri.
Così recitano le note di copertina dell’unico, rarissimo disco omonimo del 1974, targato We Produce, sussidiaria etichetta della gloriosa Stax. E c’è da credergli; non fosse che, con la dovuta eccezione di pochissimi appassionati di musica ed addetti ai lavori, nessuno più ricordava chi fosse Lou Bond. Eppure questo cantore nero, dalla voce di velluto, autore di testi poetici, sognanti, talvolta taglienti ed abrasivi, contro ogni tipo di guerra, o subdolo controllo dell’informazione e delle menti umane, aveva colpito nel profondo nientemeno che i Boss della Chess, che decisero di scritturarlo per alcuni singoli, purtroppo finiti nel dimenticatoio, a far polvere sugli scaffali della suddetta casa di produzione.
Ma, fortunatamente, c’è chi ancora ama la musica e l’emozione pura, come la favolosa etichetta Light in The Attic, che, dopo Sixto Rodriguez, restituisce a Lou Bond la tanto agognata visibilità , ristampando quel tesoro sommerso del lontano 1974, un felicissimo crocevia tra soul di marca Stax, Folk e Pop alla Bacharach, coadiuvato dalla Memphis Symphony Orchestra.
“Lucky Me” è pura poesia urbana, pregna di nostalgia e toccanti preziosismi acustici degni del migliore Bert Sommer (avrei potuto citare Tim Buckley, ma chi non lo conosce? Un motivo in più per recuperare un altro misconosciuto, ma geniale folksinger), mentre “Why Must Our Eyes Be Turned Backwards” distilla parole al vetriolo all’indirizzo dell’imperialismo religioso, cantate con un falsetto sognante alla Jackie Wilson, con un accompagnamento orchestrale che sembra esser stato preso a prestito da Isaac Hayes o dal Marvin Gaye di “What’s Goin’ on”.
Ma il vero uppercut sonoro risiede nei dieci, intensi, minuti di “To the Establishment” (già campionata da artisti come Prodigy ed Outkast), una toccante ballad guidata da un basso che avanza felino, fino ad inerpicarsi su su, fino ad un’apoteosi di fiati ed Orchestra, mentre Lou Bond canta estatico, come se Arthur Lee si riunisse a Terry Callier per una continuazione della vibrante “Dancing Girl”, toccante dedica al leggendario Charlie Parker, di appena un anno prima.
La splendida rilettura del classico di Carly Simon “That’s the Way I’ve Always Heard it Should Be” e la sfacciata “Come on Snob”, che ammonisce i benpensanti a “non mettersi sdegnosamente col naso all’insù per respirare un’aria diversa, perchè quest’ultima è inquinata”, un po’ Nick Drake, un po’ Sixto Rodriguez, ci riconsegnano un vero e proprio gioiello, che ha dovuto aspettare ben trentasei anni per avere il giusto riconoscimento, come avviene con le più grandi opere d’arte. Direi che l’attesa sia stata ampiamente ripagata.