Cosa dovrebbe succedere ai Lali Puna per far sì che se ne escano con un album sbagliato o comunque poco ispirato? Ci sono band per cui l’equilibrio è una chimera, altre per cui è una conquista dolorosa e molte, molte altre, che riescono a muoversi all’interno delle proprie possibilità riuscendo a non infrangere la magia di un’equidistanza da tutto ciò che li porterebbe in ambiti a loro poco familiari. La band tedesca rientra a pieno merito in quest’ultima categoria.
Si muove tra Stereolab, Postal Service e le frazioni di kraut rock più leggero e introspettivo, diluisce i suoni ai ritmi soffusi dell’immateriale consistenza della voce di Valerie Trebeljahr, pone un vistoso limite alle divagazioni up-tempo e lega i flussi elettronici ad un centro puramente pop forse per paura che volino via lontano.
I Lali Puna sono il trionfo della moderazione, del compromesso e della diplomazia in musica riuscendo comunque a stupire con l’eleganza delle forme l’ascoltatore meno avvezzo alla profondità dei concetti e le loro divagazioni.
“Our Inventions” è un pop primitivo, un tributo ai canoni consumati dell’ABC elettronico, delle tribolazioni meccaniche dei Mùm rese qui docili e funzionali al sistema-canzone che si sviluppa senza attriti o colpo ferire. Viene voglia di abbracciarli, i Lali Puna. Viene quasi voglia di farlo alla luce (soffusa anch’essa) di tracce come “Safe Tomorrow” o “That Day” in cui le geometrie rassicuranti di album precedenti come “Faking The Books” si piegano alla logica sinuosa di un operato glitch, meccanico ma non automatico, elettrico ma organico e misticamente urbano.
Markus Acher (Notwist, à§a va sans dire) tira le fila di un impianto melodico che non conosce una vera e propria evoluzione dai precedenti lavori ma che, al contrario, prosegue lungo il sentiero tracciato dai pionieri dell’indie-pop nordeuropeo di inizio secolo come Erlend à’ye o da degli islandesi a scelta dal lotto a nostra disposizione.
Non c’è una vera e propria ricerca, non si muovono i confini familiari del contesto simil-lounge in cui piccole perle come “Tricoder” e “Scary World Theory” li aveva cacciati ed è per questo che un album del genere ha vita breve. Nasce, prende forma, matura e muore nell’arco di 10 brani senza cambiare le sorti della musica ma, al contrario, tornando a stabilire le coordinate di un genere fin troppo ben definito e oramai tradizionale.
Ottimo l’intervento di Yukihiro Takahashi (già Yellow Magic Orchestra) nella conclusiva “Out There” e lodevole lo sforzo di rimanere fedeli alla linea. Il fatto che suddetto segmento segua una traiettoria irrimediabilmente dritta per qualcuno è sinonimo di coerenza incrollabile. Per gli altri, e non vi preoccupate perchè sono e restano la minoranza, è pura e mera prevedibilità .