L’immagine di un potere oscuro e invincibile è sempre stata al centro del cinema di Polanski: che fosse il revival noir di “Chinatown”, e la frustrante lotta del detective Jake Gittes contro la corruzione di Los Angeles; che fosse l’incubo (o è realtà ?) paranoide di Mia Farrow in “Rosemary’s Baby”; che fosse il sistema intricato che cercava di togliere l’imprevisto, l’involontaria presenza di Harrison Ford in “Frantic”; infine, che fosse la summa di tutte le tregedie sulla sete del comando, il torbido adattamento di “Macbeth” che il regista realizzò subito dopo il massacro di Cielo Drive del 1969.
L’uomo senza ombra ha molti tratti shakespeariani, specie nella rivelazione finale (risolta proprio con uno stratagemma teatrale) e nella nuova luce che getta su uno dei protagonisti, ed è persino una coraggiosa ricostruzione di attualità , visto che la rivalità politica che vede al centro Pierce Brosnan è modellata sulle controversie politiche di Tony Blair e di Gordon Brown.
Tuttavia, è come se Polanski ripetesse la sua lezione preferita, e si limitasse a darle una nuova collocazione (forse particolarmente calcata, dopo le ultime vicende giudiziarie e il decennale esilio dagli Stati Uniti) senza modificarne la forma.
Nel suo ultimo film sembra tutto al posto giusto, dall’ambientazione uggiosa di un’isola del New England alla fotografia slavata di Pawel Edelman, al ritmo serrato in cui Ewan McGregor capisce di essere entrato in un complotto politico e in una storia molto più grande di lui.
Polanski ha delle scelte di un’eleganza cristallina: oltre al citato finale, risolve benissimo anche l’introduzione (la macchina vuota nel parcheggio del traghetto, che presuppone la morte del suo proprietario, cioè il precedente biografo di Brosnan), e la sua fuga dalla banalità non è mai uno sfoggio eccessivo di padronanza dei propri mezzi.
Riesce ad evitare la facile immedesimazione con il protagonista, ma ci tiene a metterci nella sua stessa posizione di disagio per quello che riguarda la raccolta delle informazioni: il film manca di suspense, ma non di quel fascino irresistibile che conserva l’intrigo, e il malessere di esserci finiti dentro senza una via d’uscita sostenibile (ogni sua supposizione è sbagliata e lo mette fuori pista, a meno che non ci sia la memoria di un GPS ad indicargliela…)
Fosse il film di un esordiente, i tempi asciutti del racconto farebbero gridare al miracolo: davanti ad un nome come quello di Polanski, si applaude allo splendore della confezione, e un po’ meno alla sua freddezza.
La sua regia sembra molto simile al meccanismo trionfante di quell’autorità che vorrebbe condannare: e anche la metafora del titolo – chi racconta veramente la storia non si fa mai vedere, nei romanzi come nelle grandi questioni internazionali – sembra giocare al riscatto di ogni componente messa in gioco, come un esercizio matematico in cui tutti i conti tornano proprio al momento giusto.
L’ultima immagine è splendida nella sua semplicità e nella molteplicità dei suoi significati: eppure, è proprio qui che si compie il senso htichcockiano dell’operazione.
Non è esattamente nella trama e nell’atmosfera, quanto nella costruzione sempre orientata alla perfezione del calcolo, alla contemplazione di un sistema infallibile, proprio come il potere che si autoconserva.