Tempi di inarrestabile contaminazione, come antidoto alla crisi di idee e valori che coscientemente dovrebbero lasciarsi alle spalle insulse idee di integralismi e purezza come valori da salvaguardare. Nella musica, nostro bacino di indagine, sembrano persi e lontani i tempi in cui si parlava e definiva un disco come di genere, fosse pure blues, rock o punk. Sembra impossibile ora dare una risposta univoca e definita per qualsiasi ottimo disco si trovi in circolazione. E proprio i migliori risultano quelli più “‘bastardi’, i più impuri e corrotti.
I “‘fratelli’ del blues-garage-punk-rock sono già tornati. Due anni separano l’acclamato “Attack & Release”, baciato dal favore della critica e delle vendite, dal nuovo capitolo, “Brothers”, per l’appunto. Due anni vissuti intensamente, come ormai i tempi moderni richiedono. Assolutamente vietato riposare sugli allori. Persino concentrare le proprie attenzioni su un unico progetto può sembrare indice di limitate virtù. Allora, in questi 24 mesi, Dan Auerbach ha sfornato un disco tutto suo, ma pienamente ascrivibile all’universo sonoro del duo di provenienza, mentre Patrick Carney ha formato un altro gruppo, chiamandolo ovviamente The Drummer, ma, ebbene sì, suonandoci a sorpresa il basso, e non il suo strumento principe. Non paghi di questi extra-lavori, nel 2009 hanno inciso un disco di pura contaminazione rap-rock, sotto il nome Blakroc, facendosi affiancare alle voci da illustri nomi, RZA e Mos Def tanto per citarne solo due. E anche qui non hanno sbagliato il colpo e il risultato è stato ottimo.
Ma tornando alla strada maestra, dopo la produzione di Danger Mouse che con il precedente lavoro aveva iniettato nel rigore blues-rock del duo una nota di modernismo e di contaminazione, Dan e Patrick riprendono un attimo da dove erano rimasti. Ci siamo divertiti, insomma, a noi piace collaborare ed esplorare, ma questa volta torniamo a casa. Al blues puro? Fortunatamente no, a mio avviso. Certi segnali nel lavoro precedente e in alcuni brani del lavoro solista di Auerbach conducono dritti dritti al Muscle Shoals Sound Studio, un luogo sacro della musica, rock, soul e blues, che oltre a indurre sicuramente un certo rispetto, lascia inevitabilmente un proprio imprinting sulla visione sonora di chi decide di andarci a suonare e registrare. Wilson Pickett, Aretha Franklin, Rolling Stones e Bobby Womack sono solo alcuni dei nomi che vi hanno inciso autentici capolavori imperdibili.
“Brothers” sfiora il capolavoro per il duo di Akron, unendo alla felice penna che ha scritto i pezzi e composto le melodie una ampiezza e spazialità sonora incredibile. Sceglie allora di mantenersi in favoloso equilibrio, tra la spavalda rilettura del blues canonico a cui eravamo abituati, comunque energicamente rinvigorito e ridisegnato secondo linee moderne e più sensuali per le nostre orecchie, come nei pezzi “The Go Getter” o “Next Girl”, e l’omaggio alla tradizione Stax-Motown di pezzi quali “To Afraid To Love” o il primo singolo “Tighten Up”, senza alcuna reverenza eccessiva, ma chiaro e dichiarato sin dal falsetto che apre il disco in “Everlasting Light”, nelle tastiere di “The Only One, nella splendida cover di un brano di Jerry Butler, quella Never Gonna Give You Up” che solo una percezione di sè senza misure può spingere a relegare come penultimo brano di una scaletta infinita e ricchissima, composta da ben quindici tracce.
Forse è proprio qui, se volessi essere cattivo, l’unico appunto che gli si può muovere contro. Qualche brano in meno avrebbe giovato, qualche episodio incerto, rispetto alla nuova direzione che i due sembrano aver intrapreso, poteva essere lasciato a terra, scaricato prima di decidere se il passo decisivo portava a Memphis, per dire, piuttosto che a Chicago. Fossi io a dargli un consiglio, non esiterei un attimo.