C’è stato un momento, da qualche parte nella prima metà degli anni “’90, in cui i Teenage Fanclub si sono ritrovati davanti a un bivio. Da un lato c’era il vortice di successo e clamore del nuovo rock alternativo: arrivava dall’America e in un attimo aveva conquistato anche l’Europa, su fino a Glasgow, città natale del quartetto scozzese. Kurt Cobain in una delle sue sparate li aveva definiti ‘the best band in the world’, e come sempre non aveva sbagliato di molto. Concerti insieme ai Nirvana, allora. Capelli lunghi, copertine e interviste. Quel tipo di vita e di fama. Dall’altro lato la stessa strada che li aveva condotti fino a lì proseguiva serena, dolce e senza ostacoli come una bella melodia in arrivo dagli anni “’60. Per qualche tempo i Teenage Fanclub sono rimasti affacciati verso la prospettiva del grande pubblico e della celebrità . Hanno attraversato la stagione d’oro del brit pop con un disco, “Grand Prix”, semplicemente perfetto. Tanto che anche quello spaccone di Liam Gallagher aveva dovuto riprendere le parole di Cobain declassando il quartetto di Glasgow a ‘second best band in the world’. La prima, nei sogni della sua mente distorta, sarebbero dovuti essere gli Oasis. Ovviamente sbagliava.
Ma i Teenage Fanclub non sono mai andati oltre quel punto. Non hanno mai fatto il passo decisivo, quello che gli mancava per raggiungere il successo. Il successo grande, di massa. E oggi c’è da essergliene grati. Perchè così facendo possiamo ritrovarci tra le mani un disco come “Shadows”. E a vent’anni dalla pubblicazione dell’esordio “A Catholic Education”, i quattro scozzesi non mostrano alcun segno di stanchezza o cedimento. Si presentano anzi con la solidità e la concretezza di chi sa bene cosa sta facendo, di chi sa prendersi tutto il tempo necessario per fare le cose a modo. Si presentano, allo stesso tempo, con la modestia un po’ schiva dell’artigiano dietro cui si nasconde un artista. Non un passaggio fuori posto, non una melodia sbagliata. Non una canzone che non sia perfetta.
Il cuore della band, come sempre, risiede nel tridente di autori-cantanti Gerard Love, Norman Blake e Raymond McGinley. La scaletta dell’album lo riflette in modo matematico, con una successione equilibrata di quattro triplette Love–Blake–McGinley che dona al disco dinamismo e stabilità . Solo i Teenage Fanclub sono in grado di prendere un giro d’accordi da terza lezione di chitarra e trasformarlo in un singolo luccicante, disperato e incantevole come “Baby Lee”. Solo i Teenage Fanclub riescono a segnare un cambio armonico e di tempo con qualche semplice pennata di chitarra acustica come nel finale di “The Fall”. Soltanto i Teenage Fanclub possono dire cose come Well, the Rolling Stones wrote a song for me (“When I Still Have Thee”) o Dark clouds are following you / But they’ll drift away / I watched the night turning into a day (“Dark Clouds”) e restare perfettamente credibili. Trucchi da manuale della perfetta canzone indie pop, che la band scozzese maneggia con una sicurezza, una maestria e una serenità ineguagliabili. Come una ricetta semplice da cui esce un piatto squisito, oppure un gioco di prestigio che contiui a rivedere senza riuscire ad afferrarne il segreto: ciò che resta ogni volta è l’incanto del risultato.
I Teenage Fanclub hanno scelto di seguire la loro strada ed è stata la scelta migliore per tutti. Per noi, incantati da ogni nuova canzone. E per loro, che lontano da clamori e celebrità , lontano anche dal music business (il disco esce per la loro etichetta, PeMa), hanno trovato la dimensione ideale. Una vita che si rispecchia nella natura (“Live With The Season”), che guarda con dolcezza al passato (“The Back Of My Mind”, “The Past”), sempre capace di dare speranza (“Sweet Days Waiting”). Wake me when the conflict is over / I aim for a peaceful life / Shake me when this madness is no more / I favour a peaceful life, canta Gerard Love in “Shock And Awe”. E anche se le nostre vite non sono semplici e ideali come quelle disegnate dalla band scozzese, ascoltare “Shadows” ci fa sentire proprio così, anche solo per un poco.