Un festival che si tiene di giovedì, nel bel mezzo della settimana in cui una buona fetta di italiani tornano al lavoro dalle ferie (sempre che un lavoro lo abbiano ancora). Un festival in cui il gruppo di punta è stato annunciato con mesi e mesi di anticipo e poi son stati messi in vendita i biglietti senza che si sapesse quali fossero le altre band di scena, tanto alla gente bastava che il gruppo di punta fosse quello. Un festival costruito intorno ad una band come gli Arcade Fire, gente pronta a fare il botto e a diventare i nuovi Muse ““ anzi no, i nuovi U2. L’ultima occasione per vedere gli Arcade Fire in un contesto del genere, un’occasione da non lasciarsi scappare per nulla al mondo perchè d’ora in avanti la band canadese potremmo vederla solo in palazzetti dello sport (o addirittura stadi se l’esibizione si tiene nella stagione primavera-estate) con biglietti del costo minimo di 45 euro.
Ed allora si va in ricordo di quando l’I-Day Festival si chiamava ancora Independent Days Festival, e ci si perdono JoyCut e Death At The Chapel perchè il lavoro nobilita l’uomo, lo rende simile ad una bestia e gli fa pure perdere concerti su concerti, e poi perchè dai tempi in cui si andava all’Independent e si stava tutto il giorno sulla collinetta dell’Arena Parco Nord salvo poi scendere quando suonavano i propri gruppi di culto è passata moltissima acqua sotto i miei ponti. Si entra dentro che iniziano a suonare i Fanfarlo (niente male il loro incontro-scontro tra Talking Heads, Smiths e Patrick Wolf, suonano come una versione barocca dei Clap Your Hands Say Yeah e con un minutaggio inferiore a disposizione avrebbero addirittura potuto dar vita ad una esibizione memorabile e non solamente buona ma un tantino noiosa sul finire) e poi proseguono i Modest Mouse (grande delusione della giornata: una band stanca e scazzata, penalizzata da problemi tecnici ma pur sempre una band stanca e scazzata. Due anni fa sembravano avere il mondo in mano, qualcosa poi non è andato per il verso giusto ed ora è subentrata la disillusione, e noi ne paghiamo le conseguenze con esibizioni come quella di Bologna), e poi ““ per la gioia del pubblico pagante accorso lì solo per loro – gli Arcade Fire.
Accolti da un boato, gli Arcade Fire hanno iniziato subito a darci dentro. E che classe! Che tiro! Che eleganza! Canzoni che sembrano fatte apposta per essere suonate dal vivo e cantate dal pubblico, gente che ama la propria musica, ci crede e sa suonare benissimo, nessuna sbavatura, nessun intoppo per un’ora e mezza che i presenti ricorderanno per parecchio tempo (mentre gli assenti malediranno di essere stati assenti ingiustificati). La voce di Win Butler è in grado di emozionare, Règine canta, suona la batteria e fa di tutto, la band gira che è una meraviglia e nulla sembra poterla fermare perchè questa qua è gente che ha un obiettivo e sa come raggiungerlo. I brani da “The Suburbs” superano pienamente la prova live ma il meglio vien proprio dal materiale più vecchio e rodato: “Neighborhood #1” è da brividi, con “No Cars Go” si canta e si ritorna ai tempi in cui si era più giovani di tre anni, con “Keep The Car Running” si ritorna ai tempi nostri e ci si rende conto che gli Arcade Fire faranno il botto perchè sono intelligenti e sanno mettersi in gioco, e meritano tutto ciò che stanno raccogliendo e ““ presumo ““ raccoglieranno. E poi la doppietta “Rebellion (Lies)” e “Neighborhood #3”, che ti riporta al periodo in cui la gente iniziava a scoprirli e ad appassionarsi alla loro musica, che non era ancora moda come è adesso ma dimostrava di avere tutte le potenzialità per poterlo diventare, come è giusto che sia.
In definitiva, gli Arcade Fire piacciono così tanto perchè ricordano tante cose note (Bruce Springsteeen, Cure, Joy Division, U2) eppure riescono nel miracolo di suonare diversi e personali vitali ed attuali. Hanno il mondo in mano, ora sta a loro sfruttare l’opportunità oppure bruciarsi in una sola vampata.
Photo: Guy Aroch