Il concetto del bene e del male che si potrebbe travisare da una mera occhiata fugace sulla cover, se non addirittura sillabando della morte sperata che titola questo bel disco del combo australiano dei Gin Club, deve essere inteso come peccato veniale di vertigine contrapposta che nulla a che vedere con necrofilie o tumulazioni varie; “Deathwish” è un disco che va letto al contrario, preso per la sua deflagrante tavolozza di colori che in un lap di 45 minuti saetta, si sdolcina e risale l’eclettismo puro e sacrificale della loro terra, quel Queesland australiano che spesso, per affinità  geodinamiche e di storia pionieristica, è sempre stato considerato – nella musica ““ come uno spicchio di west americano “che se n’è andato a zonzo più in la”.

Ci sono tutta una serie di passaggi chiave che fanno da unione tra il trademark yankee e il riscatto sonoro di un “altro mondo sonico” coagulato alla perfezione in un variopinto mix di folk, country, pop, le sgassate oleose dell’hard-rock con una buona pasticca di psichedelia sixties calata nel serbatoio; con una fisionomia musicale iniziale “Rain”, che tende il tratto parentale tra i Wilco terragnoli e il vanishing pop di marca New Pornographers, e il carburatore sporco d’elettricità  riffata, “Pennies”, su cui i Cheap Trick sembrano ninnoli portafortuna da stringere come attira fortuna, i Gin Club – definiti ‘most exiting band’ per via del numero esorbitante dei loro componenti, sette a comporre all’unisono più varie ospitate ““ scalano l’interesse d’ascolto a mille per la scioltezza, il brio e la sfrontatezza di una potenza artistica d’assoluto impatto.

Bisogna essere onesti, qui c’è solo da ascoltare ed imparare, un incontro ravvicinato piuttosto particolare con la buona musica che fa respirare a pieni polmoni ossigeno internazionale; brani killer e momenti cameristici sono tirati fuori da una miriade di strumenti ““ moderni e legati alla tradizione ““ i quali, in accelerazioni di distorsori a manetta “Shake Hands”, “Choopin’ Wood” ed erbe grasse filate di easy “I Am My Own Partner”, “Book Of Poison”, fanno scivolare un sorriso come dopo un soddisfacente, lauto e saziante pasto tra amici di sempre.

Scott Regan, Ben Salter, Brad Pickersgill, Conor McDonald, Adrian Stoyles e Bridget Lewis, l’unica lady del combo e che affigge la grazia femminile in una stupenda acusticheria “Milli Vanilli”, non sono qui per incanalare quelle ‘grandi canzoni’ che la storia si caricherà  sul gobbone in eterno, solamente per dare una raddrizzata a quel gobbone, che se anche non se ne farà  carico, perlomeno una soppesata all’incirca gliela darà .

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