Pazzesco. Lo Stallone de “I Mercenari” è come il Beckenbauer di Italia-Germania. E non ci si riferisce soltanto all’exploit calcistico di “Fuga Per La Vittoria”, in cui peraltro interpretava un portiere, ma anche e soprattutto al suo durissimo corpo a corpo con l’ex wrestler Steve Austin quando, presumibilmente nel tentativo di effettuare una mossa di jiu jitsu brasiliano, si rompe l’osso del collo e rischia di rimanere paralizzato. Alla fine colleziona ben 14 infortuni, fra denti spezzati, caviglie fratturate, bronchiti e addirittura il fuoco di S. Antonio: a dispetto del budget di 80 milioni di dollari, “The Expendables” è un gesto di cinema libero, generoso e artigianale. Ci ricorda il Jackie Chan che si perfora il cranio in “Armour of God” e che continua a recitare con una gamba ingessata in Terremoto nel Bronx: proprio a lui sembra ispirarsi Stallone nella sequenza d’inseguimento fra i vicoli di Vilena (“Police Story”) o nel prologo sulla nave dei pirati (“Operazione Pirati”). A 64 anni suonati, Stallone si scopre todai di sifu Jackie.
E di zio Clint, ovviamente. Il suo Barney “The Schizo” Ross è un unforgiven, un fantasma, un revenant che si offre in sacrificio per noi. Prima di tutto perchè, pur essendo esattamente come ognuno l’aveva sognato e agognato, “The Expendables” riesce a sorprenderti lo stesso. E poi perchè si tratta di un film dannatamente complesso e stratificato che allo stesso tempo dà l’impressione di essere stato scritto in palestra da un gruppo di amici.
In ogni personaggio c’è un pezzo di vita dell’attore/spettatore. Jason Statham, protagonista di quel “Death Race” che è il remake di Anno 2000 ““ La corsa della morte con Stallone, si presenta come “Buda” mentre Ross è “Pest” (dove fu girato “Fuga Per La Vittoria”); Randy “The Natural” Couture accoglie il redivivo Gunner con il titolo di uno sconosciuto disco di Bruce Willis del 1989 (“If it don’t kill you, it just makes you stronger”) e viene sfottuto per le sue ‘orecchie a tortellino’, retaggio del suo passato di lottatore; Terry Crews, ex giocatore di football, fa saltare in aria un elicottero lanciandogli contro un missile; Jet Li si esibisce in combattimenti coreografati da Corey Yuen e autoironicamente si lascia affibbiare il nome di Ying Yang; Dolph Lundgren combatte, tradisce, muore, risorge; Mickey Rourke si abbandona a una confessione a cuore aperto che conferma il suo stato di grazia dopo “The Wrestler”. Senza contare i divertiti eppure serissimi camei di Bruce Willis e Arnold Schwarzenegger, l’amichevole partecipazione del campione di MMA e BJJ Minotauro Nogueira (il Rocky Balboa brasiliano!) e la schiera di colleghi che hanno declinato l’invito: Wesley Snipes per problemi legali, Steven Seagal per attriti col produttore, Denis Leary per questioni contrattuali, Danny Trejo per vincoli di budget, Kurt Russell e Jean-Claude Van Damme per divergenze artistiche.
Un film corale. I malinconici ma esuberanti titoli di coda sulle note dei Thin Lizzy sembrerebbero confermarlo. Eppure il cinema resta rigorosamente in prima persona. A conti fatti, è come se gli altri personaggi non fossero che estensioni di Barney Ross: Christmas, che devasta il pontile perchè “Schizo” è intento a pilotare; Road, cui spetta di infliggere il colpo di grazia a uno stremato Steve Austin; Caesar, che scaglia il missile ‘troppo pesante’ per Sly.
Stallone, quindi, ha ancora molto da insegnare ai vari Mark Neveldine e Brian Taylor che credono di de-costruire il genere a suon di turpiloquio e montaggio youtubbato. Non si vergogna di essere popolare pur non rinunciando alla cifra personale. Non abbassa mai lo sguardo, colpisce duro e non chiede scusa a nessuno. Fieramente conservatore, Stallone non smette di guardare a un domani migliore. Perchè si sa: il cinema, come il calcio, è un gioco di squadra. Ma la differenza la fa il singolo. Welcome to Hope”…