Ok, lo so. I Goldfrapp sono reduci da un disco quantomeno mediocre, con dei rari momenti di intelligenza pop e abbondanti sbrodolature sul tema dell’italo disco anni 80 (già peraltro affrontato egregiamente nell’hyperpop di “Supernature”, A.D. 2005), ma Alison e Will Gregory sono pur sempre i fautori di quello che considero uno dei miei dischi preferiti in assoluto, quel gioiellino di trip-hop ritardatario chiamato “Felt Mountain” che tanto ho ascoltato in 10 anni dalla sua uscita. Insomma, sì, la trasferta da Roma a Milano mi pare più che giustificata.
Arrivato nel capoluogo lombardo presto causa leggenda metropolitana secondo cui quegli strani esseri del nord comincino i concerti in orario, mi dirigo ai magazzini dove alle 20 trovo già una fila di gente pronta ad entrare. Sgomitando riesco a recuperare una buona seconda fila. Alle 21 precise, l’ingresso in scena sulle note di “Voicething”, ultimo sincopato brano di “Head First”, sorta di O Superman dei tempi moderni; la band (tastierista + batterista + chitarrista + Davide Rossi tuttofare tra violino, basso e keytar) reduce da un tour estetico negli anni 80, brilla di luce propria. Tra un lustrino e l’altro fa il suo ingresso Alison Goldfrapp, avvolta in una tuta nera sbrilluccicosa e coperta da una giacca di nastri neri che volano via al suo posizionarsi davanti ai ventilatori tattici tanto agognati dal pubblico, che nel frattempo suda a litrate.
“Crystalline Green”, tratto da “Black Cherry”, è il primo brano in scaletta; l’esecuzione perfetta sia dal punto di vista vocale che strumentale potrebbe dare l’impressione che si tratti di playback, se non fosse per gli sporadici slanci vocali della cantante, nonostante i problemi alla gola che non le hanno permesso di effettuare le date successive a quella di Milano. Seguono “Dreaming” e “I Wanna Life”, tra i migliori brani del nuovo lavoro della coppia britannica. Ma è sulle note dei singoli di “Supernature”, disco che ha consacrato la loro fama internazionale, che il pubblico si slancia maggiormente: “Number 1”, “Ride A White Horse” e soprattutto “Ooh La La”, summa dell’electropop di metà anni 2000, fanno la gioia degli ascoltatori e della stessa Alison, che mette da parte un po’ della sua storica algidità in vaghi segni d’affetto.
Primo encore, primo cambio: la proto popstar, che nonostante i 45 anni suonati dimostra un fisico niente male, rientra in scena con una sorta di rete da pescatore sulle spalle, indossata ad hoc per cantare l’unico brano della serata tratto da “Seventh Tree”, “Little Bird”, in una versione estesa a metà tra un raffinato psych-folk e un pop d’antan. Segue secondo encore, in cui la suddetta torna in scena con la carcassa pelosa di Uan sulle spalle, per terminare in bellezza con il singolo “Rocket”, fresco di successo commerciale (la reazione entusiasta del pubblico conferma) e l’extended version di “Strict Machine”, brano tra i più noti dei Goldfrapp, in un’interpretazione trascinante. Con l’amarezza di non aver sentito neanche un pezzo tratto da “Felt Mountain” esco dai Magazzini, esausto e soddisfatto della serata.
Credit Foto: Surreal Name Given [CC BY 2.0], via Wikimedia Commons