Io non amo la grazia di chi non è mai caduto, direbbe Pasternak. Nel senso che di un artista, in generale, la volontà di non inciampare o la tendenza a creare opere masticabili e perfettamente riproducibili dovrebbe interessare meno della sua voglia di osare, anche a rischio di perdere. E qui Sufjan Stevens rischia forte, ma non perde.
“The Age Of Adz” si rifà iconograficamente all’opera di Royal Robertson, classe 1936, artista dimenticato, paranoide e schizofrenico, dalla cifra stilistica messianica e fantascientifica. Ascoltare l’album in un certo senso è come vedere Stevens che si smarca da solo: conserva l’impianto sontuoso e orchestrale a cui ci aveva abituato, ma lo innesta su basi dilatate e sintetiche. Definirlo un lavoro elettronico, tuttavia, è riduttivo e impreciso, perchè si tratta di un’elettronica minimalista che si confonde rispetto agli arrangiamenti barocchi e alla complessità di fondo. La somma è più significativa di ogni singola parte, la contaminazione è più rilevante del genere.
L’apertura “Futile Devices” è l’unica concessione vecchio stampo, mentre “Too Much” è il vero pezzo sintetico, quello che ha fatto parlare di radicale diversità in qualcosa di già diverso. “I Walked” è un gioiellino di rivisitazione e disancoramento pop; la sensazione prevalente è quella di agganciare una linea melodica, entrare nel pezzo e poi non esserci più, perchè voce e talento di Stevens sono già andati altrove. “The Age Of Adz” a brevi intervalli di tempo è sulla stessa linea d’onda di chi lo ascolta (“Now That I’m Older”), ma diventa spesso inafferrabile, come nella suite finale “Impossible Soul”, 25 minuti di controtempo dream pop, Broadway, space music e quant’altro, con buona pace di ogni tassonomia possibile (e c’è pure un cameo della bravissima Sarah Worden aka My Brightest Diamond). Il crescendo nervoso di “I Wanto to be Well”, poi, vale l’intero ascolto.
Non mancano episodi più deboli, come la marcetta liquida “Get Real Get Right”, e i testi sono quel che sono, dalla celebrativa “All for Myself” allo spudorato “Follow your heart Sufjan!” in “Vesuvius”, un’epopea in colori fluo che rimanda a uomini di latta elettronici e storytellers felini nel virtuale Mondo di Adz.
“The Age Of Adz” non è abbastanza enciclopedico da essere rivoluzionario o definitivamente importante, ma segna un passaggio individuale, e forse “‘di genere’. Stevens confessa apertamente la difficoltà nel Trying to be something that I wasn’t at all. Forse nel tradimento a sè stesso c’è molta più onestà che nella fedeltà alla linea, o più semplicemente Sufjan Stevens sa di essere abbastanza bravo da trascinare qualcosa di abusato e spesso tendente alla melassa come il folk confessionale americano verso nuove direzioni. Del resto, quanto può resistere un’esperienza sotto la pressione della propria invarianza?
Se la musica evolve solo attraverso la dilatazione dei confini e se Sufjan Stevens si immola sull’altare della sperimentazione c’è una ragione. Una questione di sopravvivenza, probabilmente.