Gli Underworld sono una certezza (una delle poche che ci rimangono, tra l’altro). Inserisci un loro disco nel lettore cd e sai già come suona: un tripudio di cassa dritta e pedalare, euro-sintetizzatori che ti mandano in trance, melodie che ti entrano nel cervello e te lo danneggiano perchè non ne vogliono proprio più sapere di uscire, voci che sembrano piazzate lì a caso ma in realtà seguono un loro filo conduttore, anthems da mandare a memoria che inaspettatamente ed in poco tempo diventano vere e proprie colonne sonore di un intero inverno (e questo vale se si è soliti frequentare discoteche più o meno alla moda ma anche se ci si limita ad ascoltare musica in macchina a volumi da arresto).
Ed infatti “Barking”, pur essendo un disco che vanta collaborazioni eccellenti (Dubfire, Mark Knight, D. Ramirez, Paul Van Dyk) suona proprio così, con in sovrappiù il fatto che siamo nel 2010 ma potrebbe anche essere il 2000 circa – con gli Underworld in piena sbornia post-“Born Slippy” che, pur privi di Darren Emerson, provano comunque a dare un seguito a quella cosa favolosa e finiscono per fare cose belle come guizzi drum n’bass (“Scribble”), un riuscito tentativo 2 step (“Hamburg Hotel”), l’ennesima riesumazione del cadavere di Ian Curtis (ma inedita nel caso degli Underworld, dunque non c’è problema perchè magari è dal 2000 che pensano di farla) di “Between Stars” e poi tonnellate di techno-trance che sembra fatta apposta per calarsi un paio di Mistubishi sulla pista principale del Ministry Of Sound (o del Pacha, o di qualche altra discoteca che andava per la maggiore dieci anni fa circa) e ballare fino a collassare su un qualche divanetto, vinti dalla fatica e dal fatto che dieci anni fa (probabilmente) non esisteva la Red Bull mentre oggi esiste e lotta insieme a noi. E ciò non è necessariamente un male (dico per la musica degli Underworld, non per la Red Bull).
Insomma, in definitiva “Barking” è un gran bel disco. Un disco che porta inciso a fuoco il marchio Underworld, un disco che lo ascolti e capisci che son loro anche quando commettono l’errore di fare qualcosa che non è nelle loro corde, ossia quella inutile cosa per pianoforte fuori dal tempo e fuori dallo spazio che risponde al nome di “Louisiana”. Ma queste piccole cadute di stile come questa non sono nulla di fronte alla loro storia, ai loro trent’anni di carriera e all’enorme contributo che hanno dato ad un certo tipo di musica. Agli Underworld si perdona tutto, soprattutto se dopo tutto ciò che hanno fatto trovano ancora la forza di fare dischi così.
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