Altro progetto solista per un altro frontman. è il momento di Paul Smith, l’eccentrico cantante dei Maximo Park. La notizia di un suo possibile disco solista girava già da un paio d’anni, più o meno dalla pubblicazione di “Seeing Double”, il mediocre disco solista di Duncan Lloyd, chitarrista della band di Newcastle. E alla fine, quando ormai nessuno ci credeva più, ecco che arriva “Margins”.
Questo non è un disco dei Maximo Park senza il resto della band, è un disco diverso, ma comunque prevedibile per chi conosce artisticamente Paul Smith, per chi ha sentito qualcosa dell’altra band con cui collabora (i MeandthetwinS) e per chi è a conoscenza del suo amore per quei libri che possono essere definiti come mattone polacco, minimalista, di scrittore morto suicida giovanissimo, copie vendute: due (cit.).
Scordatevi canzoni con una certa verve, riff irresistibili e che trasmettano voglia di saltare e ballare. Scordatevi l’essenzialità e la schematicità dei primi Maximo Park. Tenete solo bene a mente l’abilità oratoria di Paul Smith, la capacità di scegliere parole dotate di una certa musicalità e che vanno a comporre testi che parlano di cose già sentite mille volte, ma in modo stravagante, un po’ più interessante. Oltre a questo, però, di notevole non c’è granchè: nemmeno l’aiuto dei fratelli Brewis (i Field Music) riesce a dare un minimo di spessore all’album. “North Atlantic Drift” (pezzo in free download dal sito ufficiale dell’artista) e “Our Lady Of Lourdes” (primo singolo estratto) sono due canzoni piatte e noiose, due brutte copie di “Questing, Not Coasting” e sono, nonostante tutto, i pezzi meno peggio di “Margins”. Le restanti undici tracce sono, senza mezzi termini, pesanti: ci sono alcune linee melodiche carine e in generale idee compositive non completamente da buttare (“The Crush And The Shatter”, “The Heat” e “Dare Not Dive” con una produzione e un arrangiamento un po’ più professionali guadagnerebbero parecchi punti), ma i pochi lati positivi del disco vengono completamente oscurati da canzoni lente e troppo lunghe, tentativi confusionari e approssimativi che vorrebbero avere la genialità dei Field Music e la malinconia immediata e sincera di Mark Kozelek, ma che di fatto riescono solo a trasformarsi in noiosi lamenti (“While You’re In The Bath” e “Alone I Would’ve Dropped” su tutte).
Forse con un budget più alto Paul Smith avrebbe avuto mezzi e risorse adatti a esprimere più efficacemente le sue idee e a produrre un disco con un suono migliore, perchè questo sa troppo di demo. O forse non è questione di budget, forse si è solo dimenticato di trovare la chiave che avrebbe potuto rendere “Margins” più accessibile agli altri, perchè così com’è, è probabile che l’unica persona in grado di riuscire a comprenderlo del tutto sia Paul stesso. Peccato.
Photo: Jörg Padberg / CC BY-SA