Ho sempre creduto che fossero le cose
che non ti scegli a fare di te quello che sei.
La tua città , i tuoi vicini, la tua famiglia…
(Casey Affleck, “Gone Baby Gone”, 2007)
Nella storia del cinema è difficile trovare una dichiarazione di poetica tanto programmatica ed esplicita come la confessione che apre “Gone Baby Gone”.
Con un monologo simile, l’esordio alla regia di Ben Affleck fu subito la rivelazione di un enorme talento.
Già il suo primo film annunciò una personalità tanto ben definita quanto sorprendente.
Come ogni cineasta che ha un’identità precisa, “The Town” dimostra un’analoga consapevolezza di temi e di idee e conferma una continuità con le atmosfere e i luoghi del suo debutto.
Anche se stavolta ha preso spunto da un romanzo di Chuck Hogan, la nuova sceneggiatura di Ben Affleck accoglie a braccia aperte le suggestioni dei racconti di Dennis Lehane, che è allo stesso tempo la sua prima ispirazione letteraria e lo scrittore che ha esaltato le storie della comunità irlandese di Boston.
Non è un caso che il suo cinema non riesca a liberarsi della città di John Winthrop e della famiglia Kennedy: del resto, la nebbia del Mystic sembra avvolgere i suoi personaggi come una condanna.
Il fatto che ormai sia stato eletto come il contesto urbano dei suoi film non è casuale.
Forse è già un superamento della logica di attrazione/repulsione che coinvolge i suoi eroi: è più un legame personale che si stabilisce con il divo stesso, che è californiano di nascita ma bostoniano d’adozione.
Quella che una volta era la Little Italy di Martin Scorsese, adesso è diventata la Charlestown di Ben Affleck: ora che l’amministrazione di Rudolph Giuliani ha trasformato l’essere new yorker nell’ostentazione di una sfida vinta con il destino, Boston è rimasta l’unica città in cui è ancora possibile rivendicare un senso di appartenenza quasi materno, condizionante ed apparentemente indissolubile.
Questa città sa essere dura…
“The Town” la attraversa dalla periferia più malfamata (eppure già infettata dalla migrazione risanatrice degli yuppies e dei colletti bianchi) ai vecchi vicoli del North End: le didascalie iniziali annunciano la doppia natura del sentimento che la avvolge e il riferimento al Fenwey Park ““ lo stadio che dal 1919 ospita la squadra di baseball locale dei Red Sox ““ come alla cattedrale di Boston offre il senso di rapporto quasi religioso, pieno di costrizioni ma anche di devozione verso la ritualità del clan.
E’ la città perfetta per le sue storie in cui gli eroi vorrebbero ricominciare ma non riescono a trovare la strada per farlo, sempre ostacolati da un passato dal quale non si possono liberare ed è strettamente legato al territorio in cui sono cresciuti.
Come Michelle Monaghan in Gone Baby Gone che si chiede se ha o meno una bella vita, nelle strade da cui non si è mai mossa per tutta la sua vita, pericolose ma protettive, anche il personaggio di Doug MacRay si domanda se potrà mai ricominciare da qualche altra parte, dimenticando il trauma della madre o il proprio retaggio familiare, che lo vuole legato al nobile mestiere del rapinatore come ad un’eredità .
Più cerca di allontanarsene e più la sua vita sembra lo specchio di quella del padre, che è negli anni è riuscito a diventare una leggenda del suo quartiere: è ormai tanto legato al suo ambiente che è proprio il rispetto delle regole del quartiere a trattenerlo ogni volta che i suoi sforzi sembrano sul punto di essere premiati.
Il cinema di Ben Affleck si distingue per questa dimensione umana – gli sguardi con cui il criminale osserva Rebecca Hall, il codice intimo con cui comunicano nella loro ultima telefonata – che copre anche i difetti di una messa in scena ancora incerta: da attore, il suo occhio si concentra di più sulle caratterizzazioni che non sulla cura del montaggio, sulla sceneggiatura più che sull’azione vera e propria.
La trappola dell’attore è poi la stessa nella quale cadono i suoi eroi: loro non riescono ad uscire dal loro contesto urbano, mentre lui non riesce a scappare da quell’immagine di It-Boy a cui Hollywood ormai lo ha incatenato.
Le sue capacità di tenere il racconto, di onorare sia la tensione narrativa che il sottotesto etico, non sono più in discussione.