Dati alla mano, facendo quei piccoli conti anagrafici che mi sono venuti spontanei al primo ascolto di “Gemini”, il nostro giovanissimo Jack Tatum deve aver vissuto gli anni ’80 sicuramente nella sua precedente vita. E lì, a metà di quella decade, deve essersi perdutamente innamorato. Deve aver conosciuto l’amore della sua vita, quello che resta per sempre l’unico e il solo che si possa permettere una A maiuscola, ad un concerto. Facile pensare al gruppo che si agitava sul palco, perlomeno semplice stilare una piccola lista con qualche nome che in quegli anni regalava emozioni e sogni e che riconosciamo immediatamente all’ascolto dei brani del debutto sulla lunga distanza della nuova creatura di Jack, affiancato da alcuni ep e singoli distribuiti negli ultimi dodici mesi.
Il suo è un dream-pop per eccellenza, dichiarato sin dal titolo della canzone che apre il disco, “Live In Dreams”. Le sue canzoni, circolari ed eteree, sembrano fatte apposta per sognare ad occhi aperti, per accompagnarci mentre pensiamo, per ovvi motivi, a chi ci sta immancabilmente a cuore. Non lasciatevi ingannare dalla data di questa mia recensione, che arriva puntualmente in ritardo, ben sei mesi dopo la data di uscita di un disco che spero abbiate tutti consumato a dovere crogiolandovi al sole e al caldo di qualche spiaggia californiana. E se così non fosse, se solo ora, leggendomi o curiosando in giro tra le varie classifiche di fine anno, vi fosse capitato di incappare nei Wild Nothing, poco male, perchè sotto la prima impressione solare e dolcissima, si riescono a cogliere anche momenti riflessivi e lampi malinconici, piatto forte per l’uggia che riempie le giornate invernali.
Nessun controsenso, basti pensare ai nomi che vengono immediatamente sulla punta della lingua, e che fanno capolino alla prima curva dell’orecchio, appena partono le note di “Summer Holiday”, di “Drifter” oppure di “My Angel Lonely”. I New Order, i Cocteau Twins e i Jesus & Mary Chain hanno sempre mischiato, con grandissima abilità , i lati contrapposti del nostro animo, trasportando l’innocenza della gioventù sul lato selvaggio e cupo della realtà . Anche il nostro lo fa con grande capacità , avvolgendo con suoni impalpabili e sottili delle melodie vocali spesso riflessive e raramente gioiose.
Il consiglio che posso provare a darvi è di non storcere subito il naso se ‘Bitchfork’ e tutta l’intellighenzia critica alternativa ne tesse lodi sperticate, usate la testa e soprattutto le vostre orecchie, senza fermarvi al primo ascolto e bollando il disco come una scialba copia di un suono che potrebbe sicuramente rivolgersi direttamente alla fonte primigenia. C’è dell’altro, la contrapposizione tra esplicite citazioni e la loro contaminazione continua, la deviazione intelligente rispetto al modello di partenza, il cantato mai sopra le righe e la scelta di un basso profilo che rende l’atmosfera vicinissima al nostro quotidiano. E soprattutto la compattezza del lavoro nel suo complesso, dodici episodi tutti interessanti, dall’immediatezza pop-dance del singolo “Chinatown” alla dolcezza ‘smithsiana’ di “O Lilac”, attraverso l’inquietudine dark di Pessimist fino alla new wave articolata di “Gemini”, piccolo omaggio ai Cure.
La title-track chiude il disco, sembra suggerire per l’ennesima volta una circolarità che non si ferma nel suono e che dagli ingredienti utilizzati vuole ripartire per altri viaggi. Anche spaziali, perchè no, visto che alla fine le missioni “Gemini” furono addirittura dodici”…
Credit Foto: Ryan Patterson