Se il mio cuore potesse cantare lo farebbe con la chitarra di Stuart Braithwait (sì, la sua chitarra canta), lo devo ammettere sono un fan dei Mogwai da sempre (o almeno dal giorno in cui venne pubblicato “Come On Die Young”) e per anni sono stato un accanito ascoltatore di tutto ciò che venisse classificato alla voce post-rock. Detto questo, il ruolo di (preteso) critico impone un certo distacco, se non proprio la totale imparzialità di giudizio, seppure credo che quest’ultima sia impossibile da raggiungere perchè, per tutti, esistono dei suoni e delle parole che fanno vibrare le corde dell’anima più di altre, senza una motivazione oggettiva.
Con “Hardcore Will Never Die, But You Will”, i Mogwai danno alle stampe il loro ottavo album in studio (considerando anche la colonna sonora “Zidane: a 21st Century Portrait”), di una carriera giunta ormai ai tre lustri. Un album che niente aggiunge a quanto il quintetto scozzese ci ha già fatto ascoltare nel suo passato glorioso, un passato in cui album del calibro di “Young Team” e il già citato “Come On…” hanno scritto pagine fondamentali di una certa attitudine a fare musica derubricata poi sotto il nome di post-rock. Non si contano infatti le band che devono più di qualcosa ai nostri.
Musicisti, i cinque di Glasgow, di rara passione, con un fiuto eccezionale per la melodia abbinato ad un furore animale, oserei dire; peculiarità queste che si possono apprezzare negli infuocati live a cui i Mogwai danno vita. Ed è proprio la dimensione del live il luogo in cui meglio si può capire chi siano i Mogwai, ovvero uomini che suonano da dio e che non lasciano spazio ad alcun tipo di posa (malattia diffusissima nel mondo del rock indipendente), pur potendosi fregiare dell’ingombrante titolo di ‘band seminale’.
Tutto questo parlare è evidentemente dovuto al mio voler rimandare l’inevitabile, al non voler dire che “Hardcore…” è un disco debole fin dalle prime note, con l’uno-due letale di “White Noise” (che a tutto fa pensare tranne che ad un assalto sonico) e “Mexican Grand Prix” (il pezzo peggiore a mio parere) che mescola elementi wave, un battito iniziale alla “My Sharona” e il colpo di grazia del filtro “‘robotico’ alla voce. “Rano Pano” si ricollega alle sonorità del precedente album “The Hawk Is Howling”, anch’esso deboluccio e già piuttosto bolso, volendo suonare epico ma risultando soltanto didascalico.
Ad alzare un po’ la media ci pensano “San Pedro” e “George Square Thatcher Death Party”, che suonano almeno godibili seppure nella costante sensazione di stare ascoltando l’eterna declinazione di qualcosa che c’è già stato, e meglio. Sensazione acuita dagli otto minuti finali di “You’re Lionel Richie”, brano che ricalca pedissequamente lo schema mostratoci dodici anni fa da quel pezzo di storia che fu “Ex-Cowboy” e al quale ritorno subito, per consolarmi e volere ancora infinitamente bene a Stuart, Dominic, Martin, John e Barry.