Un disco da ascoltare in macchina mentre guidi, e non perchè il gruppo si chiama come una marca di automobili che negli anni ottanta erano considerate vetture da pappone (soprattutto nella versione Biturbo, un vero must per ogni vecchio sfruttatore di grazie altrui che si rispetti).
Roba tosta, che in alcuni momenti ti sembra addirittura di essere al volante di una Citroen Squalo diretto verso un dj set di Daniele Baldelli al Cosmic ““ magari mentre il passeggero seduto di fianco a te ha il laccio al braccio e sta armeggiando con fiamma e cucchiaino e tu ingenuo come sei non bene capisci il perchè ““ e poi ti riprendi e ti rendi conto che è tutto frutto della tua immaginazione malata. Musica strumentale, che vale gli Holy Fuck e prende a calci i Mogwai, i Tool, LCD Soundystem, la new wave anni ottanta o tutti quei gruppi che non fanno altro che ricopiare con calligrafia incerta cose che altri avevano già fatto nel passato e non prendono un rischio manco per sbaglio.
è post-rock? è art-rock? è prog? è punk-funk? è troppa droga in circolo nelle menti di chi sta suonando? è troppa intelligenza in circolo nelle menti di chi sta suonando? Chi se ne frega, son solo etichette. Son solo menate. Ciò che conta e che spingi play sul lettore, entri dentro ma non sai come ne uscirai. Sintetizzatori troooppo anni ottanta per essere veri (“They’ll No More Suffer For Thirst”), chitarre che si inseguono senza mai raggiungersi o che forse son sempre state ferme lì ed io non me ne ero mai accorto (la title track), accenni industrial-shoegaze da far impallidire i già pallidi Dälek (“Ruins”), i Franz Ferdinand alla lanciati contro un muro a tutta velocità (“Bye M’Friend, Goodbye”) ed in generale un mood totalmente strumentale che ti avvolge e ti fa viaggiare lontano da qui, lontano da te. Un disco da (ri)scoprire.