Dai recessi della campagna del Wiltshire arriva un nuovo re: “The King Of Limbs”. E sembrerebbe anche tempo per nuovi baronetti in terra britannica perchè nell’era di tweet, click e download, possono bastare le folle globali a incoronare i Radiohead come l’unica band ad imporsi con inossidabile credibilità su scala mondiale dai tempi dei Beatles.
Chi scrive pensa che il credito di una band si costruisca non già e non solo grazie ad ‘UN’ disco ma attraverso un percorso coerente, alla capacità di veicolare un messaggio che va spesso oltre la musica. I Radiohead non si esauriscono per questo in una sterile diatriba mediatica sulla durata di “The King Of Limbs” ma meritano il riconoscimento di un percorso di sperimentazione musicale e di sfida alla stessa produzione e distribuzione discografica dell’era del consumo di massa. Di fronte ai tentativi incompiuti e alle esplorazioni di nuove frontiere sonore i Radiohead confermano un’attitudine tipicamente britannica, una dicotomia assolutamente anglosassone che da un lato ancora le band ad una copiosa tradizione e dall’altro esprime il desiderio di scardinarne i punti fermi con forza iconoclasta, sviluppando concezioni musicali innovative, generando fermento e nuovi modelli al limite della rivoluzione culturale. In questo senso “The King of Limbs” riconferma la capacità espressiva di una band che seppure ripiegata verso territori non convenzionali continua a far parlare di sè con un’intensità ed una partecipazione senza precedenti.
“The King of Limbs” non è un disco melodicamente accattivante come “In Rainbows” ma è per questo forse più coraggioso e sicuramente mette un punto sull’annosa questione del ‘ritorno’ al rock e sull’anelato rientro della chitarra dura e pura (che non c’è, inutile ribadirlo).
Come le fronde della quercia dalla quale ““pare- prenda spunto il titolo, l’album dirama trame sonore che si espandono senza costrizione. Sin dal brano di apertura “Bloom”, la voce di Yorke evade da rarefatti impromptu orchestrali e dal tessuto ritmico ossessivo di un disco fitto di drum machine, ricco di inserimenti e riferimenti naturalistici (alberi, fiori, campionamenti bucolici di uccellini), quasi rilettura di un’ispirazione folk . Non pare fuori luogo ricordare la collaborazione del cantante a “Cosmogramma” (Flying Lotus) e la sua dieta stretta di Burial, Four Tet e-non meno incisivo- Bach. “Bloom” apre la strada alla prima metà del disco, che si compie dopo il crescendo spasmodico di “Morning Mr. Magpie”, “Little by Little” e “Feral”, con il singolo “Lotus Flower” ancorato ad una linea di basso sottilmente ipnotica, per lasciare il posto all’andamento sinuoso di “Codex” -quasi una “Pyramid Song” di nuova generazione- e “Give up the Ghost”, lullaby etereo in cui tra il lirismo ambiguo di Yorke, ciguettii ed echi, trova spazio l’apporto acustico di Greenwood.
Ma se Yorke alza il registro su “Morning Mr. Magpie” ripetendo your stole it all/give it back/(“…)now you’ve stolen all the magic/took my melody, i testi tornano ad essere agganci vocali paralleli alla forza cinetica di “Little by Little” e ““ in misura ancora maggiore- “Feral”, reminiscenti senza auto citazionismo di “Reckoner” e “Idioteque”. Non smentisce il tono iniziale la chiusura del disco con “Separator”, rappresentativa di quel languido ottimismo grazie al quale “The King of Limbs” apre una breccia nell’universo parallelo da intelligenza artificiale dei Radiohead e di Nigel Godrich.
Alcuni vedranno forse fronde rinsecchite su quest’albero che ha messo radici su “Amnesiac”, “Kid A” e “Hail to the Thief” ma senza tacciare i fan delusi di incapacità a comprendere, senza invocare la necessità di un ascolto prolungato e senza bisogno di dissezionare le tracce, bisognerebbe abbandonarsi alla percezione istintiva che scorre linfa vitale sotto la corteccia. C’è vita che pulsa sotto la superficie del re delle fronde. E c’è da scommettere che le stesse fronde rimetteranno foglie nuove anche per i grandi insoddisfatti.
Photo: Greg Williams