Bandite per una mezz’oretta circa della vostra esistenza le postcard del Kentucky dei chorus agresti di cicale, dei succosi watermelon freschi succhiati tra le melodie di Joan Osborne o le predicazioni muslim pacifiste di Muhammad Ali Cassius Clay nella pace ossequiosa del Midwest americano, la scrittura di questo secondo disco dei Cage The Elephant non chiede permesso, sbraita potere per sfogare e svalvolare il suo e istinto irsuto e lurido, dunque chi è propenso ad un’operazione nostalgia per la perdita di qui a poco della tranquillità , è pregato vivamente di darsi pace e ritornare in secondo tempo.
Il secondo lavoro del progetto caciarone guidato da Matt Shultz urla “Thank You Happy Birthday” e il festeggiato virtuale è un rock malsano e sfatto, teso e ansiogeno, pestato a morte con la muscolarità dei Pixies e profumatissimo dell’olezzo sludge dell’Iggy ossesso e sguaiato, ma c’è anche dell’altro; il valore artistico di queste muraglie ferrate di suoni rimane in principio completamente estraneo a sviluppi e contributi nuovi che possano giovare alla causa del rock ‘vene & tempie’, poi man mano che fluisce si scopre in dettagli ed angolazioni che potrebbero anche tracciare fini conversioni sulle rotte di una “Seattle riprogrammata”.
Ma per il momento sono pigmentazioni che già hanno fatto gran curriculum a Dei dell’arcadia mondiale, qui voliamo per il momento ancora basso, ed è meglio aspettare e attenersi a questi dodici ordigni a grappolo che cerimoniano stili inossidabili seriali, per esempio i cori ubriachi imbastiti come una rimpatriata alcolica di Slint, L7 e la Courtney strafatta “Around My Head”, la disperazione grunge “Aberdeen” (terra di Cobain), e una mitragliata d’urina punk- garage che torna ad evangelizzare i miasmi e i lividi della Detroit fetida e convulsa che parte dallo sputo screemo di “Always Something”, delira in “Sell Yourself” e va in overdose “Sabertooth Tiger”. C’è un piccolissimo “atollo di grazia” fatto di spennate acustiche a mò di walzerino “Rubber Ball” ma è solo una piuma sui cingolati di un panzer.
Vintage e improbabili spinte in avanti fanno del quintetto americano una teste d’ariete legnosa che per il frangente sfonda solamente porte e portoni aperti, ma chissà , nella lunga e winding road del rock , tutto fino adesso è stato possibile e la speranza ““ come si sa ““ è sempre l’ultima a morire, sempre che i Cage The Elephant non vadano in cortocircuito prima del tempo.
Photo Credit: Neil Krug