Quando un gruppo ti abitua ai bei dischi è sempre un casino. Si attende il nuovo arrivato e automaticamente si pensa all’ennesima ottima prova, alla solita conferma. Rimane, però, il beneficio del dubbio, quella remota possibilità che il nostro gruppo o artista preferito possa averla fatta fuori dal vaso. A volte non c’è proprio nulla di male a pensarla così, anche perchè capita che ci si indovini.
Ecco: spero che nessuno si scandalizzi se scrivo che questo è il peggior disco degli Okkervil River. Per carità , mica un brutto disco, ma che senz’altro risulta come quello più fuori fuoco tra quelli della loro scintillante discografia.
Prendiamo il brano d’apertura, “The Valley”: non male, si direbbe, se non fosse per la batteria fin troppo anni Ottanta e per un arrangiamento poco convincente, soprattutto per quanto concerne l’uso troppo spinto degli archi. Ma come incipit ce la possiamo pure tenere; fa il suo lavoro.
Veniamo dunque a quella canzone che meriterebbe una recensione tutta sua: “Pitaratess”. “Perchè?”, vi domanderete. Perchè è pura comicità involontaria: scritta appositamente per suscitare ilarità in colui che ascolta e pensa che mai e poi mai Will Sheff possa aver scritto una roba simile. Manca una struttura sensata, un ritornello che spinga, un crescendo che faccia prima o poi esplodere quell’insieme di suoni in qualcosa che vagamente somigli ad una canzone. Rimane irrisolta, inspiegabile. Per fortuna, grazie a Dio, dopo ci sono “Rider” e “Lay Of The Last Survivor” a risollevare le sorti del sesto album del gruppo di Austin: la prima è un tipico pezzo carico à la Okkervil: pulsante e vivace, ottimo a livello di suoni e di melodia. La seconda è una ballata Indie ““ Folk niente male, delicata, non eccezionale ma convincente nel suo insieme.
La produzione lascia molto spazio a trame sonore più o meno pompose, piuttosto che a suggestioni prettamente elettroacustiche e tradizionali. Cosa che a qualcuno potrebbe far storcere il naso, certo. Non che sia un enorme difetto, ma pezzi come “White Shadow Waltz” e “We Need A Mynth”, per nulla mal riusciti, risultano un po’ patinati. Magari guadagneranno punti dal vivo, ma su disco non centrano del tutto il bersaglio. C’è poi un pezzo che, una volta ascoltato, subito lo si incorona a migliore del disco; e questo è “Hanging From A Hit”, punta di diamante di “I Am Very Far”, suggestivo, stupendamente arrangiato e cantato, perfetto a livello melodico, toccante quanto una “Savannah Smiles”, tanto per tirare in ballo un gran momento appartenente alla band.
“Show Yourself” è invece un brano costruito per essere un po’ indecifrabile, ma apprezzabilissimo nei suoi momenti dilatati e nel suo sghembo sviluppo. Un episodio di bella maniera folk ““ rock è “Your Past Life Is A Blast”, che nell’andare avanti accresce sempre più il suo impasto sonoro. Tra archi, chitarre acustiche e pianoforti, non spicca troppo “Wake And Be Fine”, funzionale comunque all’economia del disco. Giusta chiusura quella di “The Rise”, con piccoli tocchi di epos, un fluire di strumenti, ritmiche e intrecci vocali, che si ricongiungono nell’ovvia coda finale.
L’ultimo degli Okkervil River delude quindi solo in parte. Non ha la forza dei suoi due predecessori, nè tantomeno la meravigliosa classicità di lavori quali “Black Sheep Boy” o “Down The River Of Golden Dreams”. Semplicemente, un buon disco, con i suoi momenti più o meno riusciti, che si lascia ascoltare, nel complesso, con estremo piacere. Ma manca quel tocco di magia che avrebbe fatto la differenza e che qui, purtroppo stenta ad arrivare. Riusciranno a rifarsi, in un modo o nell’altro.