La vita di Kurt Vile prima di “Smoke Ring For My Halo”, il quarto album dell’artista Philadelphia e sicuramente il suo compromesso più riuscito, deve essere stato questo incessante peregrinare nei territori del nervoso cantautorato americano con qualche vena freak nel tentativo di trovare una chiave che fosse solo sua. Vale a dire, imparare tutto da certi maestri- se è opportuno definirli tali dato che non si tratta di oscuri profeti texani ma di vecchi amici di Billboard come Tom Petty e John Mellencamp– per dimenticare il loro nome.
Nonostante l’operazione gli riesca solo in parte, le interruzioni, i rinvii e il linguaggio medio di cui questo disco si fa colpevole non impediscono a Kurt Vile– un nome che sarebbe stato inadeguato a una pompa di benzina o più in generale ovunque fuori da un palco- di confezionare brani alienati ed eleganti come “Society My Friend”, che è insieme il manifesto commerciale dell’album ma anche la sua via di accesso più bella.
Le chitarre intimiste sempre sul punto di prendere la tangente, la semplificazione degli accordi e qualche eversione sintetica sono i motivi contraddittori di un disco abbastanza calibrato da avere la meglio anche su un ascoltatore che quei territori nervosi non riesce proprio a frequentarli.
A differenza di “Childish Prodigy” del 2009, che era un disco schermato e dall’identità ancora confusa, “Smoke Ring For My Halo” compie infatti uno sforzo di denudamento, a partire dalla retorica auto indulgente della title-track.
Il risultato potrà piacere o meno, è tuttavia innegabile che Kurt Vile non riesce ancora a sferrare il colpo decisivo: che sia colpa di certe correnti anni Settanta scrutate con troppo attenzione, delle parole mai contagiose o dei maestri di cui evidentemente non ha ancora disimparato il nome, non è dato saperlo.
Photo Credit: Adam Wallacavage