Alzi la mano chi ha mai ascoltato per intero un disco di Beyoncè. Sono il primo a non amare i preconcetti riguardo i grandi nomi del mainstream senza aver prima testato con mano il prodotto, ma mi rendo anche conto che per molti lettori di Indie For Bunnies ciò sarebbe chiedere troppo. Lo stesso sottoscritto non aveva ancora avuto l’ardire prima di oggi, nonostante bazzichi con frequenza i territori meno underground dell’ascolto. Beh, interrompiamo questa tradizione e datevi da fare per procurarvi quest’album, perchè difficilmente un prodotto commerciale quest’anno raggiungerà tali livelli di qualità e, cosa più importante, di autenticità . Perchè sì, qui si parla di musica fatta col cuore, del disco a cui l’artista (definizione di cui il personaggio in questione può placidamente ornarsi il capo) deve dedicare anni di gavetta per far sì che venga realizzato ““ anche per evitare il collasso economico, che tanto se ti chiami Beyoncè anche se te ne esci con un disco di cori bulgari e nacchere stai certo che la tua fanbase la pagnotta a casa te la fa portare.
Beyoncè, dicevamo. Senza mezzi termini, qui si parla della più importante popstar di colore della musica odierna, una che ti pubblica 8 singoli a disco, duetta con tre quarti delle divette pop presenti sulla piazza, ti canta pubblicità progresso in compagnia di una sua amica meno famosa, Michelle Obama, e poi te la ritrovi tra il pubblico dei Beach House in compagnia di illustre marito al Coachella 2010 come un’indieminkia qualsiasi. In fin dei conti neanche stupisce troppo che “4”, il suo nuovo lavoro, si discosti di molto dall’andazzo generale della musica pop, dal filone delle grezzate e dei sintetizzatori potenti ma che poco aggiungono a 30 anni di electro-pop. Beyoncè ha detto no alla dance cafona, al lustrino anni ’80 e al ghetto blaster sulla spalla, e l’unica gaghizzazione che condivide è quella estetica (vedere gli ultimi video e photoshoot per credere). Non un caso che l’unico episodio fortemente pop sia anche il primo singolo a veder la luce fin’ora, quella “Run the World (Girls)” che altro non è che la base di “Pon De Floor” dei Major Lazer arricchita dal vocione della cantante e da una marcetta femminista, il pezzo che avrebbe dovuto cantar M.I.A se avesse voluto conquistare il mercato americano. Il singolo nonostante le ottime intenzioni non sembra aver suscitato l’entusiasmo di critica e pubblico, facendo correre ai ripari l’etichetta. Ripari decisamente poco solidi, considerando che nel giro di pochi giorni il leak del disco, a tre ricche settimane di distanza dall’uscita ufficiale, ha fatto presagire inquietanti scenari per quanto concerne i risultati di vendita.
Poco importa, quando si parla di un mercato in cui ciò che vende non è il suono ma il nome. A noi di certo importa, e manco poco, e allora godiamo di un disco in cui la fonte d’ispirazione più usata e abusata è il catalogo Motown tra il ’59 e il finire degli anni 70. Praticamente ogni traccia sbrilluccica di black-power, alcune anche troppo (la leziosità di “Love On Top” e di “Best Thing I Never Had” superano un po’ troppo i confini della canzone sdolcinata alla Diana Ross & The Supremes maniera), culminando nel minestrone afro di “Party”, pezzone r’n’b in compagnia di Kanye West e di Andrè 3000. “I Care” e “Start Over”, tra i brani migliori del lotto, sottolineano la potenza vocale della popstar e rappresentano una formula commerciale non convenzionale, mentre i bassi di “I Miss You” si posizionano nel limbo della ricercatezza pop. E se la ballatona strappalacrime è assicurata in “1+1” e nell’eccessivamente drammatica “I Was Here”, la doppietta “Countdown” e “End Of Time”, tra trombette, ottovolanti vocali e tribalismi vari è capace di resuscitare i morti.