Mi piace pensare a tanto tempo fa, mi piace pensare ad un secolo fa: l’I-Day Festival è figlio di quel glorioso Independent Days Festival che per più di un decennio allietò il primo weekend di settembre del popolo alternativo (così si chiamava all’epoca – o meglio, così lo chiamavano le testate specializzate ed io questa dicitura riporto pari pari) salvo poi scomparire nel nulla perchè superato dai tempi, dal progresso tecnico (il suo sostituto-surrogato si chiama I-Day mica per nulla – do you remember iPod, iPad e compagnia bella?), dall’evoluzione della musica e della sua fruizione, dall’evoluzione dei gusti musicali del pubblico e dall’evoluzione del pubblico stesso. Rappresenta in sostanza un tentativo di proporre anche in Italia una dimensione da festival estero, con nomi di ampio respiro internazionale (leggasi: non roba che superate le Alpi diventa un autentico mistero buffo perchè non la conosce nessuno se non gli italiani) associati a nuove sensazioni da blog musicale (cose che magari dureranno lo spazio di un paio di click, ma che hanno una loro dignità e garantiscono divertimento e buona musica ““ fino a quando la gente non si sarà scordata di loro).
Ed in questo 2011 la proposta è stata una prima giornata che guardava al Regno Unito ed alle sue più recenti declinazioni musicali (Kasabian, Arctic Monkeys, Wombats, White Lies, Morning Parade) ed una seconda giornata più votata al cazzeggio punk et similia (Offspring, No Use For A Name, Simple Plan, Face to Face, Taking Back Sunday). Noi ““ plurale maiestatis ““ siamo stati alla prima di queste e, guardando simbolicamente dall’alto queste sei ore passate su un assolato parco alla periferia di Bologna, si fa un po’ fatica a ricordare lo svolgimento, la dinamica e le conclusioni della giornata ma ci rendiamo conto che è stato comunque un bello spettacolo. Rimangono ricordi sparsi, come gli Heike Has The Giggles che mi sono colpevolmente perso perchè ero rimasto chiuso nei bagni chimici dell’Arena Parco Nord (nessuno sentiva le mie urla, son riusciti a liberarmi quando gli ottimi Morning Parade stavano terminando di proporre il loro furbo electropop che guarda parecchio a certi anni novanta) e come i Wombats che sostanzialmente sono un gruppo innocuo ma riescono sempre a fare la loro parte, ossia quella di gente che non se la mena troppo con musica complicata e sa fare a renderti felice. Come la selva persone munite di iPhone che mi circondavano e trasformavano il festival da evento musicale a scusa per aggiornare il proprio Twitter/Facebook o scattare fotografie (mi ci metto anche io che nei momenti di maggior noia durante l’esibizione dei piattissimi White Lies ho degenerato in tal senso, ma almeno non possiedo un iPhone e mi sono reso conto che i White Lies per piacermi devono suonare al massimo venti minuti), e come l’aver avuto l’occasione per tentare di capire le dinamiche psico-sociali degli spettatori accorsi sotto un sole che in questo periodo sta tirando troppe fregature (così scriveva nove anni fa Amedeo Bruni nel pezzo sul Deconstruction Tour 2002 che sto sistematicamente copiando, son parole apparse sul numero di Rumore del Luglio 2002 ma son buone anche oggi per descrivere lo stato attuale delle cose ““ i miei omaggi ad Amedeo Bruni che ha scritto quel memorabile pezzo di giornalismo musicale italiano). Come il fatto che i social network stanno abbattendo le barriere generazionali ed oggi tra trentenni e ventenni non c’è più una differenza così netta come c’era dieci anni fa (e trentenni che provano a fare i ventenni sono socialmente accettati), e come il fatto che gli Arctic Monkeys sono diventati noti grazie al tam-tam sui social network, anno dopo anni sono diventati una vera e propria macchina da guerra ed ora possono anche permettersi il lusso di suonare un po’ scarichi e sottotono rispetto ad altre recenti esibizioni senza che nessuno se ne renda bene conto (io non ci ho fatto troppo caso e me li sono goduti alla grande). Come i Kasabian che sembrano usciti dalla Madchester di fine anni ottanta ed a Bologna non hanno sbagliato un colpo infiammando il pubblico e coinvolgendolo in un’ora e mezza di danze sfrenate, e come il fatto che la possibilità di scaricare musica gratis in rete abbia di colpo fatto crollare gli steccati tra i generi musicali rendendo possibile il miracolo di vedere ragazzini che un giorno sono punk ed il giorno dopo ballano la dance senza che nessuno abbia nulla da ridire ““ giusto così.
Non sarà stato un evento da “qui ed ora” come possono esserlo Glasto o il festival di Reading (e non ha senso nemmeno confrontarlo con tali mostri sacri perchè il contesto socio-culturale e geografico è nettamente diverso) ma c’è stato da divertirsi parecchio e pure da pensare. Ben vengano cose del genere, l’anno prossimo ci aspettiamo almeno due palchi per un festival più adulto, ancor più europeo.