Qualche anno fa ho cavalcato l’onda dell’indie pop svedese con piacere, affascinato dal contrasto tra le suggestioni nordiche di quelle terre e l’allegria twee di una manciata di dischi che hanno avuto il pregio di portare un po’ di estate in qualche inverno troppo lungo. Di quelle estati comunque fresche, in cui la luce stenta ad addormentarsi e il verde circonda perdita d’occhio. C’erano anche i Loney, Dear (non ho ben capito se la virgola sia sparita o meno dalla ragione sociale) in quei giorni, col carico armonie da sunshine pop meravigliosamente amalgamate in melodie appiccicose sapientemente zuccherate.
Molte di quelle band ben presto si trovarono, loro malgrado, un bivio: continuare su quella strada finendo irrimediabilmente per imitare se stesse (I’m From Barcelona ad esempio), oppure cambiare e allo stesso tempo restare coerenti. E’ quello che hanno fatto i Loney Dear (per par condicio questa volta non ci metto la virgola) col quarto disco, lavoro in cui maturano un percorso già intravisto nel precedente “Dear John”. Lasciata perdere l’estate agognata da tutti, sono le malinconie dell’autunno a prendere il sopravvento; suggestioni pigre e riflessive accanto ad un camino appena acceso e con una bella tazza di tè tra le mani. Undici canzoni inusuali, adagiate tra languori orchestrali e armonie soffuse in cui niente rimane dei ritornelli del passato. Un album immediatamente piacevole, che necessita della giusta predisposizione ad umori umbratili e del tempo necessario per essere capito a fondo.
Titubante durante i primi ascolti, ci sono entrato dentro e in qualche modo mi ha toccato lievemente, come una dolce carezza nel pieno di una notte difficile. Non c’è spazio per la tristezza, ma per un conforto agrodolce che lascia l’animo in sospeso. Qualcuno lo troverà noioso, non è certo adatto a tutti. Consigliamo di provarci, mal che vada avrete potuto assaporare uno spicchio dell’autunno che tarda ad arrivare. Che vi piaccia o meno, l’estate è già solo un ricordo.