Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
E parte la cerimonia, il rito pagano di Christopher Owens, agghindato e dannatamente serio come un ministro di Santeràa che ha assorbito la forza, la pulsione, e tutta la frenesia di una San Francisco vibrante e mai doma, per poi rinchiudersi in un sotterraneo del Tenderloin, quattro mura di cemento con cui dialogare e nulla più. Era quello che cercava, assieme al fraterno Chet JR White, un ambiente essenziale, senza fronzoli e distrazioni, dove esprimere la propria musica e tutto il proprio sentimento in assoluta purezza, senza inficiarlo con diavolerie e digitalismi vari. Il risultato è una sorta di cortocircuito, un insieme di emozioni, impressioni e sentimenti contrapposizioni, un gigantesco ossimoro artistico che svela ora dolore, sadness, ora la bellezza, joy, una procedere traccia dopo traccia che mescola le miserie della condizione umana alla speranza e alla fiducia in un domani migliore, e che cos’è questa tensione tra lo sprofondare e l’elevarsi? Tra l’oblio e la santità ? Una sorta di grande preghiera, un rifacimento alla tradizione più genuina del Gospel (infatti nell’album ricorrono molto i cori) un grande salmo narrativo, senza riferimenti religiosi ma con tutta la forza, la trascendenza della spiritualità di chi scrive, canta e suona con il cuore e con l’anima, di chi è un vero credente della musica.
Questa è la genesi di “Father, Son, Holy Ghost”, la seconda fatica dei Girls, band che dopo aver ammaliato la critica con il lavoro di debutto “album”, ha confermato se non addirittura superato le attese con un lavoro di certosina perfezione. L’attitudine hipster, il fascinoso sapore retrò del juke-box polveroso che pesca dalla tradizione americana più autentica, dal folk, dalle arie sixties, dagli accenni country degli ultimi cowboy sino a un dream pop trasognate, si fonde con una maestria nell’arrangiamento veramente notevole (produzione di Doug Boehm, the Vines e Liz Phair fra gli altri) che amalgama le chitarre, i cori, l’organo lontano, i fiati e i vari assoli in un’unica melodia: ovvero il suono dei Girls, già ben definito al secondo lavoro, un suono old, eseguito in maniera old non per moda o tendenza del momento, ma perchè non ha bisogno di altro.
Il protagonista però è Christopher Owens, Costello bohemien, dal passato avventuroso uscito dalla mente di un Joe R. Lansdale in viaggio con Kerouac, dall’infanzia nella formaldeide della setta religiosa Children of God alla vita con la madre prostituta, amata senza se e senza ma per la forza con cui si rialzava dal fondo del fondo in cui abitava (Mama, she really loved me/ Even when I was bad/ She’d hold my little hand/ And kiss me on the cheek/ And when I cried, she would hold me closely/ And tell me, everything will be all right/ That woman loved me). Owens attira giocoforza l’attenzione, è il centro attorno cui tutto gravita: i testi, sempre un poco abbozzati e non sviluppati, l’autoreferenzialità , la voce calda, il passato che ritorna.
“Vomit” è il primo singolo, intimo e allo stesso tempo altamente evocativo, in cui si rincorre un organo e l’anima soul delle chitarre, dove il lamento è una preghiera molto da Nick Cave versione “No More Shall We Part”, come per “Forgiveness”, traccia di otto struggenti minuti, imperniati sull’amore, il dolore e la questione sul redendersi o meno. “My Ma” invece è la tipica ballata straight, con virtuosismi a sei corde che si perdono in un classico tramonto, scontato, già visto e rivisto, ma ridisegnato e sussurrato con elegante e coinvolgente delicatezza.
Keep me up, keep me down
Keep my feet on the ground
Love, love, love, love
It’s just a song