Dopo cinque anni di silenzio, l’ormai ventennale ensemble scandinavo, presenta un nuovo album, il tredicesimo della loro carriera, il primo d’inediti e non di covers, che ne hanno fatta la fama al di fuori dei confini finlandesi. Quindi possiamo stare tranquilli che nessuno ci rovinerà le feste scegliendo il ritornello di una loro rivisitazione di un vecchio pezzo famoso per una pubblicità , come fece quella compagnia telefonica nel 2006 con “Happy Together”, riproponendola sino allo stremo nella prima campagna “Life is Now”.
I Leningrad Cowboys comunque sanno suonare, non lo dovevano dimostrare nè a me nè a nessun altro. Conosciuti tramite i b-movie del loro connazionale Aki Kaurismäki “Leningrad Cowboys Go America” e “Leningrad Cowboys Meets Moses”, film assolutamente trascurabili, tanto che nel Farinotti, dizionario di tutti i film, il secondo non viene nemmeno citato, i LC presentarono un innovativo modo di interpretare le cover, suonandole come avrebbero fatto loro, con un’aria completamente rockabilly, scanzonata ed accattivante molto prima dei vari the Baseballs, e rielaborando in continuazione sino a giungere quasi ad altro, quasi a un’interpretazione che divora l’originale creando un nuovo, attitudine in anticipo rispetto ai testi sacri di cover come le varie edizioni di “la Musique de Paris Derniere”. La loro bravura e tecnica li ha poi portati a suonare addirittura con l’Orchestra dell’Armata Rossa, in un tour che ha fatto gridare al miracolo in patria, e a farli partecipare agli MTV Video Music Awards in mondovisione. Il problema era che il giubilo e l’entusiasmo delle celebrazioni che venivano loro continuamente attribuite nel Nord Europa, corrispondevano sì ad un’attenzione nel resto del mondo, ma un’attenzione figlia dello stupore, della curiosità verso questi strampalati musicisti freak. Un’attenzione che dopo un primo stupore e dopo i primi sorrisi si tramuta in un’insofferenza verso lo stesso spettacolo proposto e riproposto. Vestiti come mariachi con capigliature estreme (ricordate i Cartoons?) continuano nel tempo a mostrare quella grottesca attitudine del popolo di mezzo, attratto dall’Occidente che copia diventandone una caricatura, ma al contempo mantenendo le origini baltiche che emergono nel chiassoso e sommario modo di vivere borderline, con l’alcol, la vodka, come bandiera di ribellione e quell’aria da sbruffone boss del villaggio.
In “Buena Vodka Social Club” c’è tutto questo. Ben suonato ripeto, ma con l’aria stanca del triste imitare qualcosa che non appartiene, quel senso di voler a tutti i costi essere un qualcosa d’altro che però è diametralmente opposto al tuo DNA. L’effetto è un po’come vedere ballare il rock’n’roll da quelle gang giapponesi vestite alla Grease.
L’album in sè è un mix di generi, dalla festante orchestralità balcanica alla Emir Kusturica sino ad arrivare a quel gusto euro pop alla “Kolla Kolla” degli Ark, passando peril surf rock anni “’60 dei Beach Boys del singolo “Gimme Your Sushi”, che fa la parodia del j-pop adolescenziale. Trascurabilissimo.