C’è un’ immagine che non riesco a togliermi dalla testa ogni volta che questo “O, Devotion” parte: Liz Green, la ‘sacerdotessa’ in questione, che si esibisce in uno di quei locali anni 50 dalla sala adornata di carta da parati e piena di tavolini tondi, con un palco malandato ma provvisto di sipario. Ecco, uno di quei locali lì, ma semi-deserto. E probabilmente la scena me la immagino in questo modo perchè in realtà vorrei che la cosa accadesse esattamente così. Poter gustare, cioè, questa voce d’altri tempi (i paragoni sono tanto ingombranti quanto azzeccati: Karen Dalton, per dire eh…) solo per me e per pochi.
Lei, quella voce così nera da non capacitarti del fatto che in realtà provenga da una trentenne del nord dell’Inghilterra, quella chitarra delicata e mai invasiva, quel contrabbasso (mai strumento fu più vituperato e sottovalutato) e quella sontuosa sezione di fiati (tromba, trombone, kazoo, tuba) che accentua ancor di più e in maniera decisiva l’atmosfera retrò e rende il sound vagamente jazzy. Filastrocche e storielle (ma attenzione, i testi sono tutt’altro che banali) si susseguono, sciorinate da miss Green con un’intimismo e un’eleganza rari. Non mi sembra il caso di menzionare qualche titolo perchè il livellamento verso l’alto la fa da padrone. Toh, magari “French Singer”, che si regge su un pianoforte prima non citato tra i vari strumenti.
Il rischio, in un disco come questo, è quello di favorire in più di qualcuno lo sbadiglio. E il sottoscritto, in diversi ascolti, di sbadigli non ne ha vista l’ombra. E non penso sia merito del caffè che prendo a colazione, perchè sto disco lo ascolto puntualmente alle undici di sera. Si tratta di magnetismo e della cara, vecchia e semplice (si badi, non sempliciotta, ma misurata e non ostentata) qualità . Si tratta di classe, va.
Per realizzare questo primo lavoro, la nostra ci ha messo la bellezza di quattro anni, da quando cioè la sua esibizione al festival di Glastonbury del giugno 2007 venne salutata con applausi di giubilo e gli valse il premio di miglior talento emergente. Ora, voi direte: ‘poche idee’. E invece no, date la colpa semplicemente ad un perfezionismo e ad un’incertezza esasperati e a una strana forma di allergia all’ “asetticità dello studio di registrazione” che le hanno impedito di lasciarsi andare e fissare su nastro tutto ciò che le passava per la testa. Cosa che invece il provvidenziale Liam Watson, produttore di questo suo esordio nonchè (opperbacco) di “Elephant” dei White Stripes, ha lasciato che accadesse.
(Unodinoi!LiamWatsonunodinoi!Unodinoooi!Liamwatsonunodinoooi)
Riguardo quel periodo di tribolazione (e sul nome dell’album), la Green ha spiegato: Più tempo serviva per portare a termine l’opera, più mi sembrava che questo titolo calzasse. Devozione significa amore e frustrazione, speranza e disperazione, esaurimento e felicità . Senza un pizzico di devozione cieca non ce l’avrei mai fatta.
Che la devozione sia con lei, allora, perchè io il bis lo reclamo a gran voce.