E’ inverno ed un mio amico si presenta a casa mia con un nuovo album, copertina verde scuro. Loro sono i mùm, ed io non li conoscevo. Metto il cd nelle stereo e, dopo un brevissimo intro, parte la prima traccia “Green Grass of Tunnel”. Elettronica, senza dubbio, ma c’è qualcosa dei Sigur Rós. Apro Wikipedia: mùm, provenienza Islanda. Adesso capisco. Intanto parte una voce femminile, bellissima. Ci metto qualche secondo per capire che non sta cantando in una qualche lingua delle fate, ma nel più comune inglese. Il testo è semplice, ma ho come l’impressione che il significato abbia davvero poca importanza. C’è molto di più. Continuo a leggere e scopro che sono sotto la Fat Cat Record, la stessa etichetta che ha prodotto i primi lavori dei Sigru Rós ed a questo punto non mi stupisco più di tanto.
Nel frattempo la prima traccia è finita, ed è cominciata la seconda traccia “We Have a Map of the Piano” e la stanza è già piena di magia nordica. Perchè mica la puoi chiamare musica questa, la devi chiamare magia. Ed io continuo a leggere e scopro che i mùm (parola che semplicemente non significa niente) sono composti da due ragazzi, Gunnar à–rn Tynes e à–rvar àžóreyjarson Smárason, e da due gemelle, Gyà°a Valtà½sdóttir e Kristàn Anna Valtà½sdóttir. Cerco di tenere a bada la mia più becera componente maschile che alla parole “gemelle” ha già preso una sua ben precisa direzione ed arrivo alla terza traccia (che poi sarebbe la quarta, essendo l’intro diviso dalla prima traccia reale), “Don’t Be Afraid, You Have Just Got Your Eyes Closed”.
Ormai non sono più neanche nella mia stanza. Io sono sempre seduto sulla mia sedia, il mio portatile è sempre sopra il mia tavolo, ma intorno a noi non ci sono più mura, e non c’è soffitto sopra di noi. Alzo il capo e vedo lo sterminato cielo d’Islanda. Giro la testa e vedo terre innevate. Sento l’odore della terra, ascolto il rumore delle foreste. Non fa freddo, si sta bene. E senza accorgermene, tra il suono di un organo ed il meraviglioso giro d’archi di “I Can’t Feel My Hand Any More, It’s Alright, Sleep Still”, sono passate altre sette traccie e sono arrivato all’ultima canzone dell’album: “The Land Between Solar Systems”. Undici minuti di musica elettronica in cui trovano ampio respiro variazioni più che psichedeliche. Finisce: torno nella mia stanza.
Cos’altro aggiungere? Mi trovo spesso combatutto dalla necessità di scrivere una recensione oggettiva, che valuti l’album come un’opera d’arte, e la voglia di descrivere cosa ho veramente provato, ascoltando questo o quel disco. “Finally We Are No One”, sono sincero, è un lavoro semplice. Si sarebbe potuto fare di più? Certamente sì. Ma ascoltarlo è stato più che un piacere. Perciò vi dico: se come me non potete ancora permettervi un viaggio in Islanda, questo album vale sicuramente la pena di essere acquistato.